Stefan Moses, ritrattista del tedesco che fu

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Forse nessun paese negli ultimi trent'anni è cambiato così tanto come la Germania. I tedeschi di oggi sono ben diversi dai loro padri. Difficile rendersene conto per i turisti che vanno, giustamente, alla ricerca dei luoghi storici, come in Italia si entra nel Colosseo o si visitano gli Uffizi.

stefan mosesO danno tutto per scontato o non si accorgono di quel che è nuovo, o è cambiato. Difficile anche per gli stessi tedeschi, che non si rendono conto di quanto siano cambiati lentamente, giorno dopo giorno. Chi viene a Berlino non dovrebbe perdere la mostra delle foto di Stefan Moses al Deutsches Historische Museum (Unter den Linden 2, fino al 12 maggio, dalle 10 alle 18). Una sorta di «come eravamo» in Germania, e un omaggio a Moses, scomparso l'anno scorso. Era nato nel 1928 a Liegnitz, in Slesia, oggi in Polonia, nel 1943 fu costretto a lasciare la scuola in quanto ebreo (mi avevano dimenticato a lungo, ricordava ironico). Internato in un lager, riuscì a fuggire nel 1944.

Suo padre Kurt, avvocato, era un appassionato fotografo dilettante e mise in mano la prima macchina fotografica al figlio a otto anni. Dopo la guerra, Stefan cominciò a lavorare come fotografo di scena al Nationaltheater di Weimar, occupata dai sovietici. Se ne andò presto all'Ovest, a Monaco, le sue foto cominciarono ad apparire sui settimanali più importanti, su Stern, sullo Spiegel. Durante il nazismo sulla stampa venivano pubblicate solo le immagini di propaganda volute dal regime, la «gente comune» veniva ritratta solo in posa adorante in presenza del Führer, alle grandi manifestazioni del partito nazista.

Le foto di Moses sorprendono per la loro apparente semplicità. È colpa nostra, anche degli addetti ai lavori, che troppo spesso non notiamo il nome degli autori delle foto, a meno di particolari reportages. Moses ha lasciato ben 450 mila negativi e diapositive, dal 1947 al 1994, e la mostra berlinese è costretta a limitarsi a due decenni, dal 1960 al 1980, dal boom economico, alla protesta giovanile, agli anni di Willy Brandt. Si vedono i volti dei tedeschi dell'una e dell'altra parte, quando il Muro sembrava dovesse resistere ancora per un secolo. E ritrovo molte immagini che avevo visto su settimanali e quotidiani, che ricordo improvvisamente. Eventi di cui sono stato distratto testimone. E una Germania che non conoscevo, prima del mio arrivo, quando le distanze in Europa sembravano immense. Come pensare di raggiungere la Berlino in bianco e nero dei film della guerra fredda?

 

Moses Stefan

 

Moses ritrae le signore dal parrucchiere, pazienti sotto enormi caschi per la permanente. O il cancelliere Adenauer accanto a Erhard, il ministro della rinascita, dalla forma massiccia e rassicurante, l'eterno sigaro in bocca. Moses seguiva i politici, Willy Brandt che passeggia solo in un bosco, il filosofo Adorno, e gli scrittori Thomas Mann e Günter Grass, e il critico Marcel Reich-Ranicki, nato in Polonia come lui, e come lui ebreo. Moses era affascinato da uomini e donne che incontrava per strada, nei parchi, in osteria. Amava citare la frase di Novalis «ogni uomo è una piccola comunità». Moses viaggiò, riprese guerre e crisi, in Africa o in Asia, ma preferì sempre tornare a casa, e lavorare nella sua Germania, unica benché divisa. Nel 1968 è a Berlino per seguire la rivolta studentesca. I poliziotti hanno ancora lunghi mantelli di cuoio fino alle caviglie, e un copricapo non diverso dai colleghi degli Anni Venti e inseguono goffi giovani in jeans. Due epoche che si affrontano in strada, padri e figli.

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Roberto Giardina

Roberto Giardina, dal 1986 in Germania, è corrispondente per il QN (Giorno-Resto del Carlino- La Nazione) e Italia Oggi. È presente su Berlin89 con la rubrica Pizza con crauti.  
Autore di diversi romanzi e saggi, tradotti in francese, spagnolo, tedesco. 

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