Il Coronavirus visto da stampa e tv? Un'epidemia di errori

Troppo presto? Non direi poiché si possono già tirare le somme su come viaggia il media mainstream, - televisione e carta stampata - per quanto riguarda l’informazione sulla prima pandemia del XXI secolo. In queste settimane di COVID-19, le notizie sono state poche o troppe, troppo commentate o affatto commentate? Perché se da una parte ci sono giornali e telegiornali che tentano l' approfondimento, manga che esaltano la serenità cavalcando lo spot pubblicitario, dall’altra parte c’è  la “cattiva stampa” che specula sulla paura della gente, alimenta il malcontento, aizza alla rissa, scatena l’odio. E' la più pericolosa. Non ci vuole il telescopio per individuare chi la sposa. 

di Luca Manduca

Illustration Janet Sung

Illustration: Janet Sung

La gente ha bisogno di ben altro. Vuole sapere come affrontare con serenità la pandemia, quali conseguenze avrà di là dei ricoveri in ospedale. La gente più che consolata, rabbonita, pretende di essere informata- È una faccenda seria. Oh…non si scherza mica!

Oggi più che mai i mass media dettano l’agenda di tutti. Una moltitudine variopinta e con un microfono in mano, appena appena saccente e pronta a riferire la prima risposta che si ritrova sulla punta della lingua, aleggia nell’infinita galassia di spettatori passivi e spugnosi e che a bocca aperta attende che qualcuno di responsabile illumini d’immenso.

Non è pensabile che il dovere di cronaca armi con microfono e macchina fotografica sprovveduti accalcati su un’area di due metri quadrati per raccogliere le dichiarazioni di un Premier (quello di turno) a sua volta responsabilmente privo di mascherina. Sarebbe surreale… chi ci crederebbe mai! Nessuno giocherebbe in questa maniera, magari per bieca visibilità, rischiando di scalfire il delicato senso di responsabilità verso il popolo. Anche perché una condotta del genere farebbe andare in tilt la pazienza di chi ha accettato la limitazione delle proprie libertà personali, quelle garantite e tutelate dalla bella Costituzione italiana.

Oggigiorno ci si fa più domande che in altri tempi. Ci si chiede di questo e di quell’altro. Perché il titolare del diritto di essere informato (ovvero tutti noi) non ne ha mai abbastanza di ingozzarsi di notizie. È come una droga, una dipendenza, sovente indotta da terze forze. È altresì una questione di quantità e non di qualità dell’informazione: se poco è come nulla, troppo non è mai veramente tale. Nel dubbio di quale sia la giusta quantità di news, per non sbagliare è meglio uno sganciamento d’informazioni a tappeto, come se piovesse, come se non ci fosse un domani per un’ulteriore ultima notizia; il risultato per il destinatario di questo assedio mediatico è la proliferazione di uno stato confusionale contagioso.

Ancora ci si chiede quando usciremo da casa, quando fino a un paio di mesi fa non si vedeva l’ora di soggiornare per l’eternità il fondoschiena sul divano; ci si domanda quando si potranno riprendere i mezzi pubblici, per ricominciare a lamentarsi dei ritardi del tram, della metropolitana carica degli olezzi d’umanità stipata, della sciura che al cellulare urla all’amica per lamentarsi della vicina che la sera lascia depositato sul pianerottolo il sacchetto dell’umido; ci si interroga sul momento in cui sarà possibile riabbracciare gli amici, gli stessi ai quali si è data buca in centinaia di appuntamenti e senza avere l’accortezza di una preventiva disdetta.

E i colleghi d’ufficio? Ah quanta nostalgia di quei cari, simpatici, giocherelloni e zuzzurelloni compagni di lavoro, gli stessi che fregano la cancelleria prima che sia smistata sulle scrivanie, o che sparlano alla prima occasione, o che fanno apparire un proprio dovere come un favore elargito con sacrificio e sudore. 

Perché chiunque adesso ha un solo desiderio: tornare alla vita di prima. Però per tornare alla vita di prima forse si dovrà tenere duro ancora per un bel po’. Si dovranno attendere altri giorni, settimane, mesi, o che si scopra il siero miracoloso, o che venga fuori la panacea di tutti i mali.

È proprio la verità: si vuole tutto e il contrario di tutto.

Sta di fatto che il comportamento da assumere nella cosiddetta seconda fase è oscuro tanto quanto lo era nella prima. E la colpa è di chi dirige l’informazione, perché non ne dà abbastanza; a qualcuno parrebbe già tanto… troppa, ma cos’è un messaggino di avvertimento ogni nano secondo? Nulla, ecco cos’è. Che si esageri pure, non ci si offende; anzi, si dice di avanzare una petizione per la diffusione capillare di messaggi sì ma subliminali. Perché la popolazione italiana non ha ben recepito.

Ad esempio, qualche dubbio persiste circa l’uso delle mascherine. Dalle finestre e dai balconi volano urli all’ennesimo comunicato sull’uso delle mascherine. “Bastaaaaaaaa!”, si ode nell’aere… ma suvvia! Non è che se ne parli tanto. E comunque quel che è tanto per te non lo è per me. Insomma… occorre indossarle o no queste benedette mascherine? Al tiggì si vedono vagare per strada da Salvini alla Meloni, da Di Maio a Renzi, da Superman a ET di Spielberg… senza la mascherina. E gli altri comuni mortali? È chiaro che non sia chiaro cosa fare.

Qualcuno di autorevole come un presidente del Consiglio dei Ministri o un Bruno Vespa, un ministro o il conduttore di un quiz preserale in tv, un Governatore o uno degli ospiti del salotto di Barbara D’Urso, in breve qualunque essere pensante e con un minimo di decoro istituzionale, o credibilità mediatica raggiunta dopo anni e anni di ospitate televisive come Tina Cipollari, dovrebbe raccontare al popolo come stanno davvero le cose.

È obbligatorio indossare la mascherina mentre si sta in fila per accedere al supermercato? E quando si corre? La gente che deve correre... deve sapere! Ormai correre è un’esigenza vitale, non si può farne a meno. Se ci dicono che non si può più andare a correre, allora a tutti scatta la mania della corsa e si sa che un minuto senza corsa al giorno d’oggi è come un minuto senza lievito per dolci o per fare la pizza.

Quali strumenti informativi impiegare per sapere qualcosa sulle misure da adottare per garantire la salvaguardia della salute pubblica alla quale il bilancio statale ha dedicato sempre meno risorse così come per la cultura? Sapremo ciò spezzando in due un biscottino della fortuna o lo leggeremo sul bigliettino all’interno dell’incarto argentato dei Baci Perugina?

I giornali parlano d’altro e di nulla che riguardi gli approfondimenti sul Coronavirus; i canali televisivi ci assediano con programmi incasinati da chef stellati e piatti più o meno veloci da preparare; il web ha perso quella buona abitudine di dedicarci ogni tanto una fake. C’è poca informazione su questo Coronavirus, del quale troppo poco si dice sugli effetti che possono produrre all’interno della società. Quali effetti psicologici produrrà il Coronavirus sugli scampati all’ospedale, e quali produrrà sugli infettati che sono guariti? Silenzio totale.

Davvero la gente è così tanto affamata di notizie? Data la valanga di news… sì. Alla gente piace il “pensiero preconfezionato”, vuol sapere come deve comportarsi: quali misure e cautele adottare, se e quando si oltrepasserà con un po’ più di nonchalance la soglia di casa, o la distanza da rispettare tra individuo e individuo. E quanta distanza? Basterà un metro? Un metro e mezzo forse meglio? Dieci metri non sarebbero appena sufficienti? E chi colma le lacune informative? La pubblicità, che oltre ad enfatizzare la bontà pomodori pelati, la comodità degli assorbenti, la fiducia nei prodotti finanziari, il sodalizio tra i segugi e le assicurazioni auto, la potenza farmaci per l’emicrania, l’amicizia di alcuni supermercati che stanno facendo lo sforzo di mantenere i prezzi fissi… dà inoltre un segnale... uno stimolo... un messaggino che possa anche ricordare… QUALORA NON FOSSE ANCORA BEN CHIARO… di essere responsabili. Così… vagamente.

E le mani? Per le mani ci affidiamo ai tutorial che impazzano sul web. Come ci siamo ridotti! Evidentemente servono… urgono persino, i tutorial che ci dicano e mostrino cosa fare sulle nostre mani. Inguantate sì o no? Lavarle? Le mani bisogna lavarle? È buona norma igienica lavarle? Consumatori e imprenditori, accoppiati e single, vecchi e bambini, scolari e lavoratori, esseri umani e persino alieni giunti di proposito sulla Terra per farsi infettare, stanno attendendo una risposta. Il buon senso suggerisce una risposta: lavarsele. Per quanto tempo? Bastano un paio di minuti oppure occorre perdere uno strato di epidermide? E con quante mosse? Tra le dita, sotto le unghie, poi il dorso... il palmo e poi daccapo. E con quale prodotto? Col sapone? Con l’alcol etilico? Con la candeggina sarebbe auspicabile? Meglio l’acido muriatico? Con la pozione magica di mago Merlino? E dov’è l’amuchina? Che fine ha fatto l’amuchina? Si sa che fine abbia fatto Baby Jane, ma dell’amuchina manco l’ombra trasparente del suo contenitore in formato da borsetta. Perché Federica Sciarelli non ci fa una puntata? Indiscrezioni fatte trapelare di proposito da Gianluigi Nuzzi lasciano credere che l’amuchina sia stata vista battere i marciapiedi per poco meno di 200 euro a lacrima, tanto che se Marilyn Monroe oggi fosse tra noi andrebbe a dormire con due gocce di amuchina e non di Chanel.


Nella certezza dell’irreperibilità temporanea dell’amuchina, un’altra grossa domanda affolla le menti che compongono il genere umano: e i bambini?

Ma nessuno pensa ai bambini? Nella fantomatica seconda fase, che sintomi darà una briciola di libertà in più sui ragazzini internati per settimane tra le quattro pareti familiari? Sapranno riconoscere il sole, il cielo, le nuvole, i fiori, e sui marciapiedi le cacche di quei cani che prima del Coronavirus non hanno mai avuto così tanti calli alle zampe?

Vorremmo che gente illuminata e competente ci mettesse in guardia. Si facessero avanti Ursula von der Leyen o Lory Del Santo, un accreditato tronista di Maria De Filippi o Angela Merkel, Donald Trump o Paperino. Perché Platinette sul Coronavirus non dice nulla che possa aiutare tutti a capire meglio? Chiedere a Giovanni Floris di intervistare un centinaio di virologi a puntata anziché un solo paio, è forse chiedere troppo?

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Dalla fine di febbraio è esplosa la psicosi da Coronavirus che si è trasversalmente diffusa da Nord a Sud. Tra miliardi di inviti a restare in casa e uscire solo per ragioni di necessità, molte persone non fanno altro che non perdere un solo notiziario. Perché? Subire quotidianamente la medesima informazione vestendola, minuto dopo minuto, con abiti, colori e sapori differenti per dare una parvenza di nuovo, produce nei pazienti-spettatori un “effetto stordimento” che in molti casi degenera in adozione di comportamenti assolutamente sconsigliati. Usando una terminologia tecnico-scientifica, a lungo andare il teleutente si rincoglionisce.

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Luca Manduca
È nato a Catania nel 1974. Maestro d'arte e grafico pubblicitario, laureato in giurisprudenza, tutor di diritto e economia, conciliatore. Attualmente vive a Milano, collabora col Centro Studi Berlin89 e scrive per la testata giornalistica Berlin'89.
Autore del libro "Una sana ossessione - Tra gli eroi, i luoghi e gli incanti di Chiamami col tuo nome - (Cavinato Editore)
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