«Parteno 'e bastimente pe terre assaje luntane...»

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«Partono le bastimenti per le terre assai lontane... Cantano a bordo:sono Napoletani!..», recita la canzone. Oggi  si chiama  in un inglese globish  "expat" l'espatriato. La sostanza però non cambia perchè la maggior parte dei migranti oggi come ieri è with broke-ass , Svizzera inclusa dove l'italiano migrante è compresso da sempre tra il dialetto Schwiizertüütsch e la convinzione che luntano 'a Napule nun se pò stà, come racconta Francesco de Collibus in questo articolo.

 migranti bastimenti   Copia“So you are an expat too?” || “E così sei anche tu un espatriato?” 

Negli hub globali, prima della pandemia, mi capitava spesso di sentirmelo chiedere se ero un "expat" oppure no. Nei corridoi dei lunghi uffici fotocopiati da una capitale all’altra, da un centro economico e finanziario all’altro, raggiungibili attraverso le stesse navette degli stessi indistinguibili aeroporti, risuonava spesso questa domanda, espressa in un inglese globish dagli accenti sempre più improbabili e imprevedibili. Un uomo lontano dalla patria e dai propri costumi, una volta era semplicemente uno straniero. Oggi non più. Il dominio della smozzicata lingua globale e di un oscuro dizionario fatto di meeting, requirements, applications,  lifecycle e business capabilities apre le porte del mondo globale a una sottospecie di élite cosmopolita. Sottospecie, perché non è élite , assomiglia più in certo modo all’operaio specializzato; Faussone in “La chiave a stella” di Primo Levi, anche lui sempre in giro per il mondo a montare torri. Il mestiere e le competenze molto specifiche come passaporto per un mondo globalizzato molto prima della globalizzazione. 

 Expat? Espatriato io?  Io mi sono considerato sempre un semplice immigrato. “Expat” è il modo in cui gli immigrati ricchi definiscono se stessi, il modo per marcare l’appartenza a questa sottomarca di aristocrazia. Expat pone l’accento su quello che si lascia, expatriate, patria - che si intende rimarcare - non era affatto male, spesso un prestigioso paese anglosassone, dominante sul mondo. Siamo qui per scelta, non per necessità, perché ci va, è un vezzo, è un capriccio, capito? 

E l’immigrato invece? La scelta lessicale pone l’accento sulla sua destinazione anziché sulla sua origine. La sua patria miserabile non merita menzione, viene spesso dalla terra dei poverini, dove la gente per vivere è costretta ad inseguire la misericordia di un ricco padrone straniero. In Italia spesso risolviamo l’inghippo con un participio presente: migranti. Li fotografiamo nell’atto di migrare, come nell’ambra preistorica restano sempre avvolti lì dentro, nel peccato originale di aver abbandonato la terra natale, senza curarci di dove vadano o dove vengano, non è importante.  

D’altronde non abbiamo risolto noi stessi l’enigma della nostra identità. Siamo una terra di emigrazione o di immigrazione? E’ davvero settembre: che tempo è, se non quello di migrar?  Il generone nazionalpopolare è chiaro: Toto Cutugno ricorda a chi va a cercar fortuna in America che l’America sta qua, Pasquale Amitrano sulla sua Alfasud in partenza dalla Baviera. Tutti abbiamo parenti in America, o in Argentina o in Canada. Siamo indubbiamente una terra di emigranti, i cognomi di così tanti sportivi e uomini di spettacolo d’oltreoceano parlano chiaro. 

Al contempo però anche i nomi di tanti sportivi e uomini di spettacolo italiani parlano altrettanto chiaro: l’Italia è anche terra di immigrazione. Terra dove la gente spesso viene dall’altra sponda di quello che fu il Mare Nostrum: per dire quanto poco straniera essa dovrebbe apparirci. Eppure… vade retro, magrebino!  Il fenomeno - oltre i soliti appelli contro i barconi - è ben poco studiato e ancora meno compreso nelle sue linee di fondo. L’Italia non si rassegna a una discussione pubblica serena sull’argomento. Pochi sono i libri davvero illuminanti e completi sull’argomento, come quello di Michele Colucci, “Storia dell’emigrazione straniera in Italia” (Carocci, 2018), dove viene mostrata la genesi tutt’altro recente del fenomeno dell’immigrazione finalmente in tutte le sue sfaccettature. 

Ma come possiamo fare pace con la presenza degli altri se non abbiamo fatto nemmeno pace con noi stessi? Poche cose fotografano le nostre contraddizioni come il libro di Concetto Vecchio “Cacciateli, quando gli stranieri eravamo noi”. La Svizzera è decisamente una cartina al tornasole, un paese rivelatore.  E’ un paese estremamente vicino e estremamente lontano.  In parte familiare, l’Italiano è pure lingua ufficiale, in parte cattolico, in parte alieno come il dialetto locale,  Zurigo e Ginevra culle della rivoluzione protestante.  Un paese piccolo, ma influente, il contrario del nostro, abbastanza grande, ma  quasi irrilevante. La Svizzera è il nostro doppio. Il numero di luoghi comuni e modi di dire - sempre positivi, puntualità, precisione - che circonda il nostro vicino è impressionante se si pensa che si riferisce a una nazione con 8 milioni  e mezzo di abitanti,  un milione e mezzo di meno di una singola regione dell’Italia come la Lombardia.  Non sorprende sapere che il 25 per cento della popolazione sul suo suolo elvetico non possieda la cittadinanza svizzera, se contassimo coloro che hanno già ottenuto il passaporto rosso ma con radici straniere il numero farebbe un ulteriore balzo in avanti.

 Una parte rilevante di queste radici stranieri sono le nostre, quelle italiane. Concetto Vecchio, giornalista di Repubblica, è nato nella Svizzera tedesca ed è rimasto fino ai 14 anni a Lenzburg. Quando torna, quasi 40 anni dopo, in Sechseläutenplatz a Zurigo, tutto è irriconoscibile, soprattutto l‘atmosfera. Parla con una donna in piazza, che riconosce subito il suo accento argoviese. Intorno alla piazza tutti ristoranti esibiscono nomi italiani. Essere italiano adesso è di moda, essere italiano fa simpatia, porta alla mente ricordi di vacanze, di buon cibo.

Sonnenland Italien, la stessa che si cerca appena fuoriporta oltre le alpi, oltre il Gottardo, a Lugano e Locarno, luoghi che a noi della penisola sembrano incredibilmente settentrionali, quasi boreali, ma che per zurighesi e bernesi hanno una allure praticamente tropicale.  Napulè, una deliziosa pizzeria napoletana vicino Meilen, ha aperto uno stand, in città, appena dietro Stadelhofen: è preso d‘assalto. Ovunque si promette, e si vende a prezzi per noi inconcepibili, il miglior “espresso italiano”. Mai nei miei anni in Svizzera ho sentito l‘ombra di un pregiudizio, di un sospetto nei confronti delle miei origini.

In Università e nei svariati luoghi di lavoro sono stato sempre accolto benissimo e con la massima cordialità possibile. Non è stato sempre così: Concetto Vecchio racconta degli anni sessanta e settanta, di un mondo disperato, di umiliazioni feroci a danno di persone poverissime, spesso analfabete, fuggite da una miseria inconcepibile quanto ancestrale, che solo con il lavoro più disperato hanno potuto guadagnarsi il diritto a una vita decente, una vita da esseri umani. Una intera generazione è dovuta crescere letteralmente negli armadi perché i loro genitori non avevano il permesso di portarli oltreconfine: se li avessero trovati, sarebbero stati deportati.

Potevano solo lavorare e dovevano solo lavorare. “Cercavamo braccia, sono arrivate persone”, disse lo scrittore Max Frisch.  Tschingg, li chiamavano, una storpiatura irriconoscibile, della parola italiana cinque, visto che gli italiani giocavano spessissimo - si tramanda- a morra, e gridavano spesso  questo numero:“Cinque”. Appena pochi anni dopo, io - italiano - non ho nessuna idea di come si giochi a morra. Molti non ne hanno voluto più sapere, e sono tornati appena possibile a casa, ne hanno avvertito la necessità quasi fisica. Molti degli emigrati di quelli anni non parlano molto volentieri di quel periodo, se lo sono lasciati alle spalle.  

Dopo un periodo di secca, negli ultimi dieci anni l’emigrazione italiana è tornata a salire considerevolmente, circa 20.000 persone all’anno: in breve gli italiani hanno di nuovo scalzato i tedeschi come primo gruppo di stranieri residenti in terra elvetica. 

E’ cambiata considerevolmente il tipo di persone in arrivo. Fabiola Giannotti, l’attuale direttrice del CERN di Ginevra, è una nostra connazionale. Un lungo articolo del Tages Anzeiger uscito a Gennaio 2020 riporta le particolarità di questa nuova immigrazione dalla penisola: incredibilmente più scolarizzata di quella degli anni passati. 

Tra le mie dirette conoscenze sono pochi in effetti quelli senza il dottorato. Questa nuova emigrazione, registra il Tages Anzeiger, spesso si integra bene, arrivando a parlare da subito un perfetto Hochdeutsch. L’aspetto linguistico è sempre stato uno dei punti più deboli della nostra immigrazione: persino oggi i nostri connazionali si distinguono dall’esilarante grammelot di dialetto Schwiizertüütsch e dialetti italiani meridionali che usano tra di loroAntonio Razzi - emigrato all’età di 15 anni - era uno di questi invisibili.  Quindi chi sono gli italiani di oggi all‘estero? I manager e i ricercatori universitari o i pizzaioli e gli operai? A guardar bene entrambi. Sono tutto questo insieme.  Vicino casa mia c‘è la chiesa cattolica di Herz Jesus. La messa delle 19 della domenica è ufficialmente in lingua italiana, anche se il prete - slovacco - sembra avere un concetto molto più ampio di noi madrelingua di cosa sia l’Italiano.

Ogni tanto vado lì più che per ragioni religiose, ormai flebili se non proprio estinte, per ritrovare un ancestrale pezzo di patria. I volti delle donne anziane mi affascinano, la loro ritualità nell’alzarsi e inginocchiarsi sempre più malcerta (l’età che avanza!)  mi ipnotizza, potrei fissarle per ore.  Sono volti senza tempo. Sono i volti di quando mia nonna andava ai vespri in paese, nella chiesa madre, i volti senza tempo che mi fissavano tra gli stucchi barocchi e le statue di San Cristoforo. 

Cosa significano quei volti per me? Cosa è questa nostalgia, mentre ballo con convinzione solo apparente la danza di futuro digitale, globalizzato e incomprensibile? È il senso della mia emigrazione, è il senso della mia estraneità, e quindi di appartenza. Immagino gli altri membri delle comunità straniere lo ritrovino nelle forme più strane, nell’odore dei tappeti in moschea il venerdì, o nei dolcetti della festa hindù dell’Holi, la festa delle Luci.  

Non lo so, non saprei dirlo.  Non c’è un vero perché. Prima ancora che immigrati o emigrati , expats o migranti, siamo esseri umani. La nostalgia ci incatena ai luoghi e alle emozioni più improbabili.


De Collibus Francesco Maria De CollibusFrancesco Maria De Collibus  si è laureato in Filosofia prima e poi in Informatica a Milano. Da qualche anno vive e lavora in Svizzera, dove svolge anche un Dottorato su Blockchain e Sistemi Complessi  presso l’Università di Zurigo.

Tra le altre cose ha pubblicato i saggi di cultura digitale “Blitzkrieg Tweet” (Agenzia X, 2012) e  - assieme a Raffaele Mauro - “Hacking Finance - la rivoluzione del Bitcoin e della Blockchain” (Agenzia X,  2016).

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