Il congresso di Verona allarma l'Europa che conta

Quello che emerge, fin dalle prime battute, al Congresso della famiglia di Verona è la volontà discriminante e pertanto illiberale di imporre il “pensiero unico” che stabilisce a priori ciò che è giusto e “corretto” e, proprio per questo, non impugnabile. Non a caso questa “volontà” è giudicata da Amnesty ostile ai diritti umani . Comunque rappresenta un pericoloso attacco al concetto stesso di democrazia che allarma soprattutto i sei paesi fondatori dell'Europa perché la conclamata imposizione del “pensiero unico” si richiama al fascismo che mosse i primi passi nel marzo di un secolo fa, come Armando Lancellotti ricorda con questo saggio che volentieri proponiamo.

Cent’anni fa, il 23 marzo del 1919, in piazza San Sepolcro a Milano, Benito Mussolini fondò un movimento politico chiamato “Fasci italiani di combattimento”. Alla prima adunata parteciparono soprattutto ex-combattenti e Arditi, futuristi, tra i quali Filippo Tommaso Marinetti, uomini provenienti sia dall’area politica nazionalista sia da quella socialista, dal sindacalismo rivoluzionario e dall’anarchismo. Eterogeneità e convergenza di correnti politiche differenti, accomunate però da alcuni elementi ideologici, appaiono gli aspetti essenziali del “fascismo della prima ora”, che rese noto il suo primo programma politico il 6 giugno del 1919 su «Il Popolo d’Italia».

family5In un’Italia che, uscita dalla guerra, assisteva alla riapertura della polemica politica dell’anteguerra tra neutralisti ed interventisti, i Fasci di combattimento difendevano e rivendicavano in modo chiaro le ragioni dell’intervento, denunciando al contempo il debole ed inetto neutralismo degli avversari, in particolare dei socialisti; mettevano sotto accusa l’inconcludente ceto politico liberale, ritenuto responsabile della “vittoria mutilata”, in quanto incapace di ottenere al tavolo delle trattative della Conferenza di pace di Parigi quanto i soldati italiani avevano conquistato versando il loro sangue nelle trincee. Avanzavano inoltre richieste, anche radicali, di cambiamenti politici e sociali che dovevano «assicurare immediatamente l’emancipazione delle classi lavoratrici sottraendole al partito socialista»3 e, pertanto, sul piano politico-istituzionale volevano la repubblica, richiedevano la convocazione di una costituente, il suffragio politico e l’eleggibilità anche per le donne, il sistema elettorale proporzionale, l’abolizione del Senato e, sul piano sociale e finanziario, le otto ore lavorative, la partecipazione dei lavoratori al funzionamento tecnico delle industrie, l’imposizione di una forte tassazione straordinaria sui grandi capitali, il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose. Per la politica estera, il nascente fascismo proponeva iniziative capaci di promuovere e valorizzare la nazione italiana nel mondo4 ed infine autodefiniva il proprio progetto politico come un programma nazionale di un movimento autenticamente italiano.

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Si trattava di un programma confuso5 in cui «i temi di un radicalismo nazionalista si combinavano con una forte intransigenza anticapitalistica e con il rifiuto della monarchia», ma «la vera novità che il movimento voleva rappresentare nella lotta politica emerse chiaramente dopo poche settimane» dall’adunata di piazza San Sepolcro, quando, il 15 aprile, «squadre di “avanguardisti”, armati di bastoni e pugnali, irruppero nella sede milanese dell’«Avanti!» e la distrussero. La novità era rappresentata dunque dall’uso della violenza contro gli avversari politici, ritenuta uno strumento indispensabile per sovvertire l’ordine costituito e realizzare quella rivoluzione nazionale che costituiva il fine del movimento»6. La politica intesa come azione, diretta e violenta, come “assalto” condotto contro l’avversario, così come l’odio antisocialista e l’ostilità nei confronti del parlamentarismo liberal-democratico costituirono fin da subito le cifre caratterizzanti il movimento fascista, più dei singoli punti programmatici in cui si mescolavano nazionalismo piccolo borghese con suggestioni socialiste e velleità rivoluzionarie, in parte retaggio dei trascorsi politici di Mussolini.

Anche sulla natura movimentista del fascismo di San Sepolcro occorre soffermarsi, in quanto potrebbe apparire singolare che proprio quel fascismo che una volta divenuto regime si sarebbe trasformato in un partito-Stato, realizzando una sorta di assolutizzazione del concetto di partito, ai suoi albori si definisse un “antipartito”, ma in realtà era un’idea del tutto coerente con la natura di quel movimento che intendeva contrapporsi all’idea tradizionale di partito e al sistema liberal-parlamentare fondato sui partiti. «Per tutto il 1919 Mussolini ripeté che i Fasci non erano e non sarebbero mai diventati un partito, perché l’antipartito era soprattutto una mentalità, uno stato d’animo, proprio di spiriti liberi e spregiudicati»7.

Mussolini socialista

Benito Mussolini aderì al socialismo e si iscrisse al PSI nel 1900, per poi diventare segretario della federazione del partito di Forlì nel 1910, dando prova di dinamismo e di capacità di leadership politica in occasione delle lotte politico-sindacali degli operai e dei contadini romagnoli di quegli anni. Due anni dopo, al congresso del partito svoltosi a Reggio Emilia (luglio 1912), Mussolini colse l’occasione per passare da capo del socialismo romagnolo a leader socialista di livello nazionale, tanto che uscì dal congresso «consacrato come una delle figure di primissimo piano di tutto il partito, […] affermandosi come uno degli esponenti della frazione rivoluzionaria su scala nazionale»8. E sul carattere rivoluzionario del socialismo mussoliniano occorre soffermarsi con particolare attenzione. In alcuni settori e tra i più giovani esponenti del socialismo italiano si erano diffuse le idee del sindacalismo rivoluzionario, che all’inizio del secolo XX aveva conosciuto nel francese Gorge Sorel, autore delle Considerazioni sulla violenza (1908), il principale teorico: la violenza proletaria come forza liberatoria e strumento di lotta e lo sciopero come mito propulsivo e come mezzo di mobilitazione di massa in preparazione dello sciopero generale rivoluzionario sono alcune delle idee principali di una teoria filosofico-politica che prendeva le distanze dal riformismo parlamentare della maggior parte dei partiti socialisti europei del tempo e privilegiava l’azione rispetto alla riflessione, anteponeva la spontanea iniziativa insurrezionale delle masse alla mediazione politica, proponeva la violenza come strumento di lotta politica.

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Le convergenze tra un certo sindacalismo rivoluzionario e il “fascismo della prima ora”, in seguito amplificate e corroborate dal “fiumanesimo” dannunziano, si sarebbero rivelate decisive per la genesi del fascismo nel clima politico infuocato dell’Italia uscita dalla Grande Guerra, ma questi elementi eversivi, ribellistici e violenti erano già presenti fin da subito nel socialismo di Mussolini degli anni precedenti lo scoppio del primo conflitto mondiale. Anche l’antiparlamentarismo era una delle idee forti del socialismo rivoluzionario di Mussolini di quegli anni, come emerge da numerosi passaggi dell’intervento del leader politico romagnolo al congresso di Reggio Emilia, che si concluse con l’espulsione dal PSI della componente riformista-revisionista capeggiata da Bonomi, Bissolati e Cabrini.

La polemica, tra la corrente di questi ultimi – che riproponeva in Italia i temi della riflessione revisionista del marxismo di Eduard Bernstein – e quella rivoluzionaria più intransigente, era in atto già da qualche tempo all’interno del socialismo italiano, ma fu in seguito alla disputa politica sulla posizione da prendere dinanzi alla guerra italo-turca per la conquista della Libia (1911/’12) che si passò alla scissione del partito, all’espulsione dei revisionisti e alla conquista della guida del PSI da parte dei massimalisti rivoluzionari. Il socialista rivoluzionario Mussolini, che una volta divenuto duce del fascismo avrebbe fatto del colonialismo in Africa un punto fermo della politica estera italiana, in quel momento fu tra i più convinti nemici della guerra italo-turca e in quello stesso 1912 guadagnò la direzione del giornale del partito, l’«Avanti!», incarico che ricoprì fino all’autunno del 1914. In due anni il giornale vide, «sotto la direzione battagliera e brillante di Benito Mussolini, […] quasi raddoppiare la diffusione raggiungendo una media di oltre cinquantamila copie vendute»9.

Il 1914 fu anche l’anno del congresso di Ancona del PSI (aprile) e della “settimana rossa” (giugno), avvenimenti che di poco precedettero l’attentato di Sarajevo e lo scoppio della Grande Guerra. In occasione del congresso di Ancona «i socialisti confermarono la linea di intransigenza adottata due anni prima a Reggio Emilia. […] Certo, Turati, Treves e la maggioranza del gruppo parlamentare, dominato dai riformisti, dissentono con forza dal barricadiero direttore dell’«Avanti!» e ne vorrebbero la sostituzione, ma ad Ancona Mussolini si comporta con prudenza e la direzione lo difende con decisione. Inoltre il congresso approva a larghissima maggioranza un ordine del giorno Zibordi-Mussolini che segna una nuova affermazione del leader romagnolo. […] Così il congresso può chiudersi con la conferma di Mussolini alla direzione dell’«Avanti!», l’elezione di Costantino Lazzari alla segreteria del partito»10. Pertanto, nell’estate del 1914, allo scoppio del tumulto marchigiano e romagnolo – la cosiddetta “settimana rossa” – il mondo operaio italiano si trovava diviso tra la segreteria del PSI, collocata su posizioni rivoluzionarie e la maggioranza del gruppo parlamentare e la CGdL, guidata da Rigola, di orientamento riformista. Una situazione di interna contraddizione tra le varie anime del socialismo italiano che sostanzialmente produceva immobilismo e che si sarebbe riproposta anche successivamente, ovvero in occasione del “biennio rosso” e della “occupazione delle fabbriche” nell’estate del 1920.

Dal neutralismo all’interventismo

Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1914 l’Europa sprofondò nel gorgo della più terribile guerra mai combattuta fino ad allora e l’Italia, facendo leva sul carattere difensivo della Triplice Alleanza, stipulata nel lontano 1882 e che la legava agli Imperi centrali, dichiarò la propria neutralità. Nelle settimane e nei mesi successivi, l’intero paese, le forze politiche e l’opinione pubblica si divisero sul problema della guerra, collocandosi su due fronti contrapposti: quello interventista e quello neutralista. Innanzi tutto, entrambi gli schieramenti erano alquanto eterogenei, sia perché mettevano assieme partiti o forze politiche decisamente distanti tra loro, sia per le motivazioni differenti e talvolta divergenti che guidavano i vari gruppi politici alla scelta interventista o neutralista. In secondo luogo, il paese era prevalentemente neutralista, ma nella primavera del 1915 l’Italia entrò ugualmente in guerra, sconfessando la Triplice Alleanza e schierandosi a fianco della Triplice Intesa.

A favore dell’intervento si schierarono tanto i nazionalisti dell’ANI quanto i socialisti riformisti di Bonomi e Bissolati, oppure i democratici e i repubblicani o intellettuali come Gaetano Salvemini, oppure ancora gli irredentisti e i sindacalisti rivoluzionari, senza dimenticare la fondamentale scelta interventista operata dalla corona, dietro alla quale stava l’esercito e dal governo, guidato da Salandra. Da questo sommario elenco emergono con chiarezza le divergenze ideologiche interne al fronte interventista, nel quale poi rientravano molti giovani studenti, numerosi intellettuali, artisti d’avanguardia come i futuristi, i più importanti giornali e più in generale la piccola e media borghesia, oltre ad alcuni settori dell’industria nazionale. Pertanto, le ragioni che muovevano gli uni – per esempio il completamento dell’unità politica italiana in linea di continuità con gli ideali del risorgimento democratico, proposto come obiettivo da democratici, repubblicani, irredentisti e socialisti riformisti – non coincidevano con le ragioni di altri, per esempio del governo e della corona, spinti dalla logica della politica di potenza, oppure dei nazionalisti, favorevoli comunque alla guerra per scopi imperialistici, o dei futuristi, attratti dalla “bellezza estetica” della guerra moderna, ed infine totalmente divergevano dalle idee di rivoluzione sociale dei sindacalisti rivoluzionari. Sul fronte opposto si schierarono socialisti, cattolici e giolittiani, così diversi tra loro e mossi alla scelta del neutralismo per ragioni differenti, che andavano dall’internazionalismo socialista11, al pacifismo delle masse cattoliche e al pragmatismo politico di Giolitti.

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Alla fine risultarono decisive la chiara scelta del governo e del re in favore della guerra – risoluzione della corona che indusse lo stesso Giolitti ad evitare lo scontro istituzionale e a convergere su posizioni interventiste al momento della votazione decisiva in parlamento – e la capacità di mobilitazione delle forze interventiste nelle settimane e nei mesi cruciali della primavera del 1915. La scelta dell’alleanza poi era, per dir così, nell’ordine delle cose e, dopo un’iniziale idea dei nazionalisti e del governo di entrare in guerra a fianco degli Imperi centrali, al momento del fallimento sul fronte occidentale del piano Schliffen – il piano d’attacco tedesco – fu presa la decisione di schierarsi dalla parte dell’Intesa, che poteva avvallare le richieste italiane12, principalmente indirizzate contro l’Impero austro-ungarico.

Quale era, allora, la posizione del direttore dell’«Avanti!» Benito Mussolini di fronte alla guerra? In estrema sintesi si può dire che Mussolini dopo un’iniziale fase di neutralismo assoluto, in ossequio alla linea scelta dal partito, passò, nell’ottobre del ’14, al “neutralismo attivo e operante” – come egli stesso lo definì – ed infine, tra ottobre e novembre, all’interventismo dichiarato, che comportò prima l’allontanamento dalla direzione dell’«Avanti!» e poi l’espulsione dal partito socialista.
Infatti, «il 22 settembre 1914, con un manifesto scritto da Benito Mussolini ma concordato con Treves e Turati, dunque unitario nella sua formulazione, la direzione del PSI lancia un appello energico alle masse perché si oppongano alla guerra, riafferma che il conflitto “rappresenta la forma estrema, perché coatta, della collaborazione di classe”, […] sottolinea “l’antitesi profonda ed insanabile tra guerra e socialismo”. Ma non è in grado di far seguire all’analisi, irreprensibile dal punto di vista ideologico, nessuna direttiva concreta di lotta. […] Si intravede, insomma, […] una situazione di stallo che deriva sia dall’isolamento internazionale in cui i socialisti italiani vengono a trovarsi sia dall’impossibilità di attuare una strategia di lotta effettiva contro la guerra»13.

Poco meno di un mese più tardi, il 18 ottobre, sull’«Avanti!» Mussolini scrisse un lungo articolo, dal titolo significativo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, nel quale esponeva la tesi secondo la quale la posizione assunta dal PSI rischiava di relegare il partito nell’immobilismo, di escluderlo dal corso dei cruciali avvenimenti storici che il mondo e l’Italia stavano vivendo. «I pilastri del ragionamento mussoliniano sono chiari: 1) l’unico modo per essere protagonisti di quel che accade è muoversi e nello stesso senso in cui la realtà sembra evolvere; 2) il ruolo dell’Italia può essere centrale tra le grandi potenze, accorciare enormemente il conflitto, condurre alla formulazione di un nuovo equilibrio internazionale. L’una e l’altra convinzione sono […] rivelatrici al fine della comprensione dello stato d’animo del giovane leader e confermano il suo essere assai più vicino ai movimenti elitari del primo Novecento che alla tradizione socialista, la sua ansia di protagonismo e meglio ancora d’essere dalla parte di chi vince»14. Il 20 ottobre la direzione del partito socialista si pronunciò contro la nuova linea assunta da Mussolini; il 10 novembre Mussolini stesso ammise di essere impegnato nel lavoro di preparazione di un nuovo giornale interventista e a quel punto la rottura con il PSI divenne scontata ed inevitabile.

Il 15 novembre uscì il primo numero de «Il Popolo d’Italia, quotidiano socialista» e, nell’editoriale del direttore, Mussolini ribadiva e spiegava le ragioni della sua scelta interventista. Il giornale divenne così la tribuna personale dell’interventismo mussoliniano e, almeno inizialmente, dell’interventismo di sinistra più in generale, come attestano anche le numerose polemiche che Mussolini sostenne contro i nazionalisti, proponendo ancora una lettura della guerra come fatto rivoluzionario. Il bersaglio principale degli strali di Mussolini furono però i neutralisti ed in particolare i socialisti e poi a seguire i cattolici e i giolittiani. Nel corso del conflitto però, l’interventismo mussoliniano cominciò a perdere progressivamente il suo radicalismo di sinistra e sempre più si ricollocò sulle posizioni del nazionalismo ed infatti «il 1^ agosto 1918 il sottotitolo “quotidiano socialista” venne significativamente sostituito con “quotidiano dei combattenti e dei produttori”»15. In tal modo il giornale perdeva la propria connotazione ideologico-classista e si spostava su posizione produttiviste, interclassite – oltre che di sostegno ai combattenti – che anticipavano già idee che di lì a poco sarebbero state parte del nascente fascismo

L’officina del fascismo

La Grande Guerra aveva lasciato in eredità alle società europee un pesante fardello di violenza: «il mito della forza e della violenza “rigeneratrice” rappresentava un’eredità diretta della cultura interventista, nella quale erano confluite non solo le correnti ideali del nazionalismo di destra […] ma anche l’esperienza politica del sindacalismo rivoluzionario, esaltatore della violenza rivoluzionaria e dell’azione diretta»16.

Come è noto, lo slogan nazionalista della “vittoria mutilata” si diffuse nei mesi successivi alla conclusione della Grande Guerra, quando a Parigi il 18 gennaio 1919 ebbe inizio la Conferenza di pace e la delegazione italiana, guidata da Vittorio Emanuele Orlando e da Giorgio Sidney Sonnino, si trovò di fronte ad un problema che già nelle settimane e nei mesi precedenti aveva iniziato a dividere opinione pubblica e forze politiche italiane: quale linea politica tenere alla Conferenza di pace e quali richieste territoriali avanzare nelle regioni dell’alto Adriatico e dei Balcani, ritenute cruciali per gli interessi nazionali.

Il blocco politico e d’opinione che potremmo approssimativamente definire “interventista di destra e nazionalista” richiedeva tanto il rispetto integrale del Patto di Londra, quanto l’annessione della città di Fiume, abitata prevalentemente da italiani. Questa linea politica fu fatta propria dal governo italiano e dalla delegazione Orlando-Sonnino, che, pertanto, tentò di avanzare parallelamente richieste sottese da principi politici differenti o addirittura divergenti: da un lato, infatti, l’ottemperanza del Patto di Londra con tutte le sue rivendicazioni imperialistiche era richiesta in nome del rispetto degli impegni presi dagli alleati dell’Italia, ma senza tener conto del principio di nazionalità ed autodeterminazione dei popoli che, almeno sul piano ideale, non poteva essere ignorato a partire dal 1917 e dai “Quattordici punti” del presidente statunitense Wilson, il quale inoltre non si sentiva in alcun modo vincolato dal Patto di Londra, che non aveva sottoscritto. Dall’altro, l’Italia pretendeva Fiume, non contemplata dall’accordo del 1915, in base a quel medesimo principio di nazionalità che non era disposta a prendere in considerazione per la Dalmazia17, rivendicata dalla Jugoslavia, stato sorto in seguito allo smembramento dell’Impero austro-ungarico e collocato in un’area, quella balcanica, da sempre oggetto delle mire espansionistiche della politica estera italiana.

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A queste pretese imperialistiche si opponevano gli ex-interventisti democratici, come i socialisti riformisti e come, tra gli altri, Salvemini e pure i socialisti e i giolittiani, che richiedevano soprattutto obiettivi irredentistici e invitavano il paese a concentrarsi sui problemi di politica interna; in alcuni casi, come quello del ministro social-riformista Bissolati, che proprio per dissensi col governo sulla politica estera si dimise, si proponeva «l’abbandono non solo della Dalmazia […] ma anche dell’Alto Adige e del Dodecaneso (sui quali non [c’era] stata, da parte di Wilson, alcuna contestazione)»18. Ma a dare una direzione precisa alla questione e a far insorgere una crisi politica, interna ed internazionale al contempo, non furono solo le polemiche tra gli schieramenti politici italiani, ma anche e soprattutto la posizione presa, con l’avallo di Francia e Gran Bretagna, da Wilson, che si dichiarò risolutamente contrario alla linea del governo italiano sulla questione adriatica e di Fiume19.
Come osservò Salvemini «Sonnino e il primo ministro Orlando assunsero durante i negoziati di pace due diversi atteggiamenti che essi consideravano complementari ed erano invece contraddittori. Sonnino, in base al Trattato di Londra, continuò ad esigere quella parte della Dalmazia che gli era stata promessa, e Orlando, in base al principio di nazionalità, domandò in aggiunta Fiume»20.

L’ambiguo e contraddittorio atteggiamento italiano contribuì all’irrigidimento della posizione statunitense e all’indifferenza interessata del britannico Lloyd Gorge e del francese Clemenceau ed in secondo luogo favorì la nascita e la diffusione del mito nazionalista della “vittoria mutilata”, che ben presto divenne la parola d’ordine di un’eterogenea area politica che, pur comprendendo forze e correnti anche diverse, si cristallizzò attorno alla convinzione che per l’Italia ad una “guerra vinta” stesse facendo seguito l’umiliazione di una “pace perduta”. Su queste posizioni si collocavano il movimento ed il giornale di Benito Mussolini, ma anche e soprattutto Gabriele D’Annunzio, il poeta-vate del nazionalismo italiano, che già era stato tra le voci più ascoltate dell’interventismo del 1914/’15 e poi protagonista di alcune brillanti e coraggiose imprese durante il conflitto.

Fu proprio D’Annunzio che, nel settembre del 1919, al comando di alcuni reparti militari ribelli e di volontari, marciò sulla città, posta sotto il controllo internazionale, vi instaurò il comando del Quarnaro liberato (12 settembre) e la proclamò annessa all’Italia. L’impresa di Fiume, concepita più come un mezzo per far cadere il governo Nitti21 – considerato ancora più rinunciatario ed incapace di Orlando di risolvere la questione adriatica – che come un’esperienza politica destinata a durare nel tempo, assunse fin da subito caratteri alquanto particolari ed originali ed inoltre si protrasse nel corso dei mesi, continuando fino al dicembre del 1920.

Nella città istriana si diedero convegno i personaggi più disparati, spesso mossi da convinzioni politiche molto diverse o anche divergenti: arrivarono giovani artisti futuristi e tra questi lo stesso Marinetti – affascinati dal significato eversivo dell’impresa e dalla “bellezza estetica” dell’iniziativa del poeta – a cui si aggiunsero nazionalisti, ufficiali con velleità golpiste, sindacalisti rivoluzionari con progetti insurrezionali ed attratti dall’idea della politica fatta attraverso l’azione diretta e la spontanea iniziativa delle masse, che in qualche modo l’avventura dannunziana sembrava realizzare, avventurieri di vario genere in cerca di occasioni di promozione politico-sociale.

Per molti di coloro che seguirono D’Annunzio, Fiume fu il luogo in cui essere protagonisti sia di un’avventura politica rivoluzionaria sia di un’esperienza esistenziale nuova e soprattutto trasgressiva, nei costumi e nello stile di vita: indisciplina, individualismo ed originalità nei comportamenti, libertà sessuale, omosessualità e consumo di droga caratterizzarono la Fiume di D’Annunzio. Se da un lato questi aspetti dell’esperienza fiumana scandalizzarono una parte dell’opinione pubblica italiana e della classe politica e dirigente, dall’altro, molti giovani intellettuali d’avanguardia e soprattutto i futuristi, forse sovrapponendo e mescolando confusamente trasgressione e rivoluzione, osservarono con entusiasmo quanto accadeva nella città istriana22.

Da un punto di vista più strettamente politico, nella fase che precedette l’occupazione della città «l’egemonia politica sull’impresa è di marca nazionalista e militare, cioè di forze guardate senza troppi sospetti dall’apparato statale»23. «Le forze di sinistra che fecero di supporto all’impresa dannunziana vi si inserirono a città occupata, […] ma la preparazione dell’impresa e la sua prima realizzazione si compirono sotto il totale controllo delle forze di destra, che le impressero indelebilmente il loro marchio […] e l’impresa dannunziana a Fiume conservò un sostanziale carattere nazionalistico»24. Questo non significa che non vi sia stata una componente di sinistra nel “fiumanesimo”, che si alimentò soprattutto del contributo del sindacalismo rivoluzionario sia per le ragioni già prima espresse sia per il ruolo che svolse nel governo della città istriana Alceste De Ambris, socialista, poi sindacalista rivoluzionario, tra i fondatori dell’USI25, nel 1919 avvicinatosi ai Fasci di combattimento di Mussolini ed infine esule politico antifascista.

Fu soprattutto De Ambris l’estensore della Carta del Quarnaro (1920), sulla quale avrebbe dovuto reggersi il governo di Fiume. Si trattava di una Carta in cui si sommavano produttivismo – il cittadino partecipava alla Stato in quanto produttore – e corporativismo – le associazioni professionali erano considerate la base della società e dello stato e alle corporazioni veniva affidato potere legislativo. Proprio queste idee espresse nella Carta del Quarnaro, insieme ad altri aspetti dell’esperienza fiumana, permisero al fascismo, una volta conquistato il potere, di indicare nella Fiume di D’Annunzio un ideale prototipo fascista.

L’atteggiamento assunto da Benito Mussolini nei confronti dell’impresa del poeta-soldato fu, sin dal primo giorno, di appoggio e condivisione dei principi che la guidavano e dalle colonne de «Il Popolo d’Italia» il capo del fascismo allineò il proprio movimento alle posizioni del Legionari di Fiume, senza però fare più di tanto per dare sostegno concreto al poeta, scatenando in tal modo l’ira di D’Annunzio: è noto, infatti, il contenuto della lettera che quest’ultimo inviò a Mussolini, chiedendo un più convinto sostegno all’impresa e facendo seguire alla richiesta una lunga serie di accuse ed ingiuriosi rimproveri per la passività fino a quel momento dimostrata dal capo dei Fasci.

MussoliniL’atteggiamento di Mussolini «nelle settimane che seguono alla marcia è abbastanza contraddittorio, come se il direttore del «Popolo d’Italia» volesse, da una parte, utilizzare l’impresa per mutare gli equilibri politici nazionali ma, dall’altra, non volesse lavorare per la gloria del comandante a proprio danno»26. Ma al di là di questi screzi tra i due leader, è evidente che l’impresa di Fiume, alla luce di quanto sarebbe accaduto negli anni successivi, possa essere letta come un’esperienza protofascista, nel senso che nei quindici mesi di governo dannunziano a Fiume – quasi che la città istriana fosse diventata un laboratorio politico in cui sperimentare su piccola scala quanto poi sarebbe stato realizzato su scala ben più ampia – presero forma idee, pratiche politiche, progetti, slogan, simboli che poi, di lì a poco, il fascismo avrebbe ereditato, assimilato e rivendicato per tutta la durata del regime: l’idea della presa del potere attraverso un’iniziativa di forza; il progetto di una “marcia su Roma” per far cadere il governo; il ricorso a rituali collettivi e a formule politiche come le grandi adunate o il dialogo tra il capo carismatico e la folla; l’uso del motto “me ne frego”, già degli Arditi durante la guerra, che D’Annunzio adottò e dopo di lui Mussolini; insomma tutto quel complesso insieme – in buona parte lascito della Grande Guerra – di ribellismo, trasgressione, avanguardismo, combattentismo, attivismo, infuocato nazionalismo, retorico demagogismo, elitarismo politico che divenne una forma mentis che dal “fiumanesimo”, una volta esauritasi l’impresa dannunziana in seguito al Trattato di Rapallo del novembre del 1920, passò al fascismo delle origini e allo squadrismo, che, a partire dall’autunno dello stesso 1920, avrebbe fatto la sua nefasta comparsa nel paese.

Testi citati
Alatri P., D’Annunzio, UTET, Torino, 1983
Candeloro G., Storia dell’Italia moderna, vol. IX, Il fascismo e le sue guerre, Feltrinelli, Milano, 1981
Collotti E., Fascismo e politica di potenza, Politica estera 1922-1939, La Nuova Italia, Milano, 2000
De Bernardi A., Guarracino S. (a cura di), Dizionario del fascismo, Bruno Mondadori, Milano, 1998
De Felice R., Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Einaudi, Torino, 1965
Franzinelli M., Fascismo anno zero. 1919: la nascita dei Fasci italiani di combattimento, Mondadori, Milano 2019
Gentile E., Storia del partito fascista, Laterza, Roma-Bari, 1989
Sabbatucci G. (cura di), La crisi italiana del primo dopoguerra, Laterza, Roma-Bari, 1976
Salaris C., Alla festa della rivoluzione. Arditi e libertari con D’Annunzio a Fiume, il Mulino, Bologna, 2002
Tranfaglia N., La prima guerra mondiale e il fascismo, TEA, Milano, 1995

Fonte: Carmilla

 

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