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La caduta del Muro di Berlino passa alla Storia come un evento liberatorio, la fine di un’epoca, ma dopo la Guerra fredda i muri tra popoli e Paesi si sono moltiplicati. Erano solo 7 alla fine della seconda Guerra mondiale. Trent’anni fa nel 1989, quando cadde quello di Berlino, erano diventati 16. Nei 10 anni dopo la fine della Guerra fredda ne sono stati costruiti 14. Oggi gli studiosi ne hanno contati 77: tanti sono i Muri nel mondo.
Dal 12 marzo la Pandemia ne ha aggiunto un altro all'elenco, ha fatto tornare il "muro" a Gorizia. Dopo 16 anni il capoluogo isontino e Nova Gorica tornano "città divise" come ai tempi della cortina di ferro. Manca soltanto il filo spinato e la visione d'insieme sarebbe completa.
È innegabile che il Covid-19 stia ridisegnando la geopolitica mondiale e costruendo nuovi muri.
Se focalizziamo l’attenzione sull’Italia, come zoomando su di una carta geografica fino a restringere il campo all’estremo nord-est della penisola, possiamo avere un ottimo esempio di mutati e mutanti (dis) equilibri.
La Venezia-Giulia, quella porzione del territorio italiano di confine e dalle vicende storiche e culturali tortuose e tormentate, è infatti attualmente teatro di dinamiche antitetiche di chiusura ed al medesimo tempo permeabilità dei confini.
Chi non ha dimestichezza con questi territori, forse non sa che le questioni legate all’appartenenza culturale e all’identità linguistica sono state sempre in gioco in questi territori, e più che mai dalla fine del primo conflitto mondiale, quando l’impero Austro-Ungarico di cui faceva parte si sgretolò.
E proprio qui fu eretto il primo muro della cortina di ferro, precisamente a Gorizia.
Era un muro tirato su nel 1947, all’indomani della cessazione del secondo conflitto mondiale, un muro teso a dividere l’Occidente dall’Est comunista.
Inizialmente era impossibile passare da una parte all’altra del muro, successivamente ci furono delle piccole aperture.
Poi venne il lasciapassare, meglio conosciuto come propusnica, che consentiva a residenti e frontalieri di andare e tornare da una parte all’altra: il confine divenne permeabile.
Dopo che cadde (9 novembre1989) il muro, il Muro per antonomasia, quello di Berlino, l’URSS si disgregò (26 dicembre 1991), la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia si dissolse e tutti gli Stati che la componevano acquistarono - via via - l’indipendenza. La Slovenia divenne uno stato indipendente nel 1991 ed entrò a far parte dell’Unione Europea nel 2004. Soltanto allora il muro di Gorizia fu smantellato.
Ma si fa presto a tirare su i muri, e la pandemia è riuscita - come detto - a ridividere la piazza Transalpina di Gorizia in due. All’inizio dell’emergenza la Slovenia chiuse i confini con l’Italia, tra innumerevoli polemiche, visti anche i non indifferenti interessi economici in ballo e le problematiche legate ai numerosi frontalieri.
Dall’entrata della Slovenia nell’Area Schengen nel 2007 la circolazione tra i due territori è stata sempre libera, inoltre la Slovenia costituisce un importante corridoio per l’accesso in Croazia dall’Italia, dunque la chiusura è stata motivo di grande preoccupazione.
A sugellare la chiusura, il 12 marzo a Gorizia è stata posizionata una rete che impedisse l'accesso in Slovenia ricreando un confine non valicabile. Ironia della sorte, nelle settimane in cui pian piano la Slovenia ha allentato il lock-down e riaperto alcune attività come bar e ristoranti, alcuni italiani hanno tentato di scavalcare le barriere ed andare dall’altra parte.
Un tempo il flusso era esattamente contrario e dalla Slovenia si veniva a Gorizia ed a Trieste alla ricerca dei piaceri mondani, dei caffè e attratti dalla possibilità di acquistare tutto ciò che nel blocco sovietico non era possibile trovare.
A Trieste nacque un fiorentissimo (per i triestini) commercio di vari beni che andò avanti per anni e che muoveva interi bus organizzati per venire nella città giuliana dalla Jugoslavia. Il simbolo di questo commercio furono i jeans, soprattutto tra gli anni ’70 e ’80, che venivano venduti soprattutto in piazza Ponterosso, una delle piazze principali della città. Corsi e ricorsi storici.
E Trieste è l’altro polo dei movimenti antitetici che interessano questo estremo confine italiano, movimenti che parlano di rotte migratorie più recenti come quella balcanica che passa attraverso Grecia, Macedonia, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia per poi arrivare in Italia.
Proprio lungo questa rotta, nel 2015, è stato eretto il discusso muro tra Serbia ed Ungheria che devia di fatto il passaggio dei flussi verso la Croazia rendendo appunto il viaggio dei migranti più difficile.
Infatti, il Carso triestino è uno dei percorsi attraverso il quale arriva una parte dei migranti che attraversa questa rotta nella speranza di poter entrare in Unione Europea. Si tratta perlopiù di giovani uomini, molti afgani o pakistani, che varcano il confine a piedi; puoi vederli talvolta camminare in fila indiana al margine della carreggiata se attraversi il Carso in automobile; con la ridotta circolazione per via del Coronavirus il flusso apparirà sicuramente ancora più marcato.
Naturalmente la stampa di destra nazionale e locale ricorre ai toni forti per richiamare l’attenzione con titoli come, “Trieste peggio di Lampedusa”; “Saremo travolti dai migranti” ,ed altre litanie di simile tenore. Anche il vicesindaco della città che parla di, "assalto islamico a Trieste”. Quanto basta per capire che il “clima” si sta arroventando.
Attraverso “frontiera invisibile”, com’è chiamata, nel 2019 sono entrati nel Friuli Venezia Giulia intorno ai cinquemila migranti, il doppio rispetto al 2018.
Per avere un’idea dell’ampiezza del flusso, basti pensare che, secondo i dati del Viminale, i migranti sbarcati in Italia nel 2019 sono stati 11.439.
Naturalmente, il movimento delle genti è connaturato alla storia dell’umanità, ce lo racconta anche Bruce Chatwin ne “L’anatomia dell’irrequietezza”; come non condividere le parole che ci raccontano dell’istinto ad andare: “…l’uomo, umanizzandosi, aveva acquisito insieme alle gambe diritte e al passo aitante un istinto migratorio, l’istinto a varcare lunghe distanze nel corso delle stagioni…”.
Noi lottiamo contro i mulini a vento, cerchiamo di chiudere i confini ed alzare muri, ma quanti muri ancora potremo erigere? La pandemia in corso certamente dimostra che i muri non servono a difenderci e che la privazione dei nostri privilegi e delle nostre libertà, quelle che noi occidentali diamo per scontate, arriva da dove proprio non avremmo mai creduto.
Valeria Mirabella è nata a Catania nel 1976, geografa e linguista, attualmente vive a Trieste dove lavora presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati e collabora con il Triestebookfestival. Ha insegnato geografia di Cuba presso l’Università degli studi di Catania e si è occupata a lungo di migrazioni.