Berlino è pandemia. Il Cinema in ottima salute.

Un tour-de-force di cinque giorni anziché dieci, una selezione più limitata del consueto, è stata presentata la Berlinale. Rigorosamente online e solo agli addetti ai lavori.

 Collo indolenzito e cervello impigrito, dalle strane nuove e scomode posizioni da lockdown, visione nel piccolo contenitore sulla scrivania. Mentre ci si aspettava tappeti rossi, le conferenze stampa, le chiacchiere fuori dalle sale come l'ultima edizione al mondo ad aver avuto luogo fisicamente, la Berlinale appunto. Si è appunto trovato dopo appena 12 mesi in un ambiente familiare eppure distopico.

Eppure la dimensione politica e sociale che nutre da sempre il festival di Berlino "Berlinale", il più grande d'Europa per pubblico, anche questa volta ci ha affascinato offrendoci le sue qualità più grandi, ed uniche. Pochi i film a lieto fine, si avverte come una volontà comune di rapresentare, di denunciare il "male".
Dimostrando che il cinema riesce anche in questa occasione, a veicolare una delle sue qualità uniche: offrire una finestra sul mondo.

E che il cinema gode di ottima salute.

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Bad Luck Banging or Loony Porn

Premiato con l'Orso d'oro

Titolo originale Babardeală cu bucluc sau porno balamuc di Radu Jude (Romania / Lussemburgo / Croazia / Repubblica Ceca) prodotto da Ada Solomon.

Girato durante la pandemia, come testimoniato dalle mascherine indossate da attori e comparse, ha una trama semplice, ormai universale anche se qui appare come una diretta critica alla società rumena. Che per altro avrebbe potuto essere realizzata da una qualsiasi produzione o regista italiano - grandi assenti di questa edizione - data la vicinanza alla grottesca vicenda giudiziaria di Revenge Porn  di cui si è ampiamente occupata stampa italiana.

Una società gretta ed egoista, quella romena, che parcheggia sulle strisce pedonali, non raccoglie le cacche di cane e fa scenate in coda alla cassa del supermercato.
Non solidarietà e gentilezze come effetto collaterale della pandemia che si sarebbe attesa Jude, che nel primo dei tre atti segue la protagonista Ema nell'estate di Bucarest.
È qui che traspare la morale del film: tra le strade assordate dal traffico, dai lavori in corso, dal turbo-folk sparato dai centri commerciali, dove si muove una folla arrabbiata e sciatta, incurante di ciò che ha intorno.
Quando, per nostro sollievo da turista, distogliendo lo sguardo dall'umano, la camera sosta sulle architetture sovietiche di Piata Uniri. Sulla incompleta slavina del Palazzo del Popolo voluta da Ceausescu, sulle facciate neoclassiche e art-deco — come quelle della storica Cineteca — che si stagliano come giganti stralunati e ignari del macello che accade ai loro piedi. Un sospiro di sollievo, a passeggio sui piani “alti” di una metropoli, nel modo in cui facevamo una volta, viaggiando.

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The Scary of Sixty-First

Debutto dell'americana-bielorussa Dasha Nekrasova, nota nei circoli hip di New York come attrice ma soprattutto autrice del podcast Red Scare, che commenta fatti di politica e società con cosiddetto taglio “dirtbag left”. È un omaggio a Dario Argento, o a Polanski de L'inquilino e Rosemary's Baby, ai sabba orgiastici di Eyes Wide Shut.

La storia horror prende spunto dal caso di Jeffrey Epstein da un palazzo di New York e dall'appartamento maledetto e per un messaggio elementare dove abuso di potere e violenza prendono le forme di un incubo terrificante, per le vittime e la società intera.

Dalla colonna sonora di Eli Keszler e le inquadrature del direttore della fotografia Hunter Zimny, il tributo argentiano è tanto evidente quanto kitsch. A tratti sciatto proprio come detta il dirt-bag left e con molti fili scoperti. Sin dalla sequenza di apertura, con una smarmellata argentiana da manuale esibisce i segni del potere criticati dal film: l'investimento edilizio.
Sì, e la morale è questa, in alcuni casi l'affidabile “mattone” può diventare davvero crogiolo del male: dai macabri gargoyle che sorreggono i cornicioni dell'Upper West Side ai putti disperati che decorano le facciate del rinascimento gotico a Manhattan fino alla tana del lupo, la Herbert N. Straus House.
Costruita nel 1932 in stile neoclassico e già allora pensata per inquilini abbienti, sette piani tra Madison e la Quinta Strada, a due passi da Central Park. Epstein ci si trasferì negli anni '90 ma diventò sua residenza preferita solo nel 2011.
Improvvisatesi detective e tramite le panoramiche di Google Earth, le protagoniste indagano anche sulle altre abitazioni di Epstein sparse per il mondo, in particolare su Little St. James Island ai Caraibi. Luoghi sinistri che il film carica, e a ragione, di qualità estetiche piuttosto macabre e non poco terrificanti. Astenersi se non si ama il genere.

I am your man 71ª Berlinale

I am your man

Orso d'argento per la migliore interpretazione

Ich bin dein Mensch è una commedia semiseria su amore, solitudine e interazioni tra umani e robot della regista tedesca Maria Schrader.
È la storia di Alma (Maren Eggertvincitrice del primo premio gender neutral per Miglior Performance Protagonista), un'esperta di lingue antiche presso il Museo del Pergamon di Berlino.
Istruita e single, dovrà esprimere il suo giudizio di esperta su un nuovo programma di “accompagnatori”.  Robot umanoidi, guidati da un algoritmo basato sui dati raccolti da 17 milioni di persone in cerca dell'anima gemella.
Così si ritrova affiancata dal prototipo Tom (Dan Stevens). Più che affascinante, con doti superumane molto desiderabili, che Alma cinicamente disseziona, pur affezionandovisi. Così non riuscirà a smentire il preconcetto: un matrimonio tra macchine e sentimenti è impossibile.

Ma soprattutto diventa un tour, un omaggio ai luoghi più celebrati della capitale tedesca, ma spogliati della consueta patina storica e ritratti nel quotidiano, carico di sfumature fantascientifiche. Vediamo Alma correre per le scale della nuova estensione del Pergamon Museum, la James Simon Galerie disegnata da David Chipperfield e inaugurata nel 2019.
L'altare di Zeus appare in tutta la sua magnificenza - ricostruzione scenografica o una succosa anteprima? Perchè il museo è chiuso da anni per rinnovo -, e squarci dell'Isola dei Musei che, dato il periodo pandemico, appaiono surrealmente deserti.
C'è la camminata pedonale lungo la Sprea, a ridosso della stazione centrale progettata da Gerkan, Marg and Partners, e soprattutto c'è il plattenbau di Spandauerstraße, dove abita Alma e da dove, quasi puoi toccarli, si vedono la gigantesca la Torre della televisione di Alexanderplatz e la cupola della cattedrale.

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What do we see when we look at the sky?

Una lunga fiaba romantica, questa del giovane regista giorgiano Alexandre Koberidze e la cui protagonista silenziosa è l'antica cittadina di Kutaisi, in Georgia.

Luogo sospeso nel tempo e ritratta con la stessa generosità corale con cui vengono osservati i suoi abitanti, contribuisce a rendere palpabile il realismo magico che della trama. Lisa e Georgi si conoscono per caso e si innamorano, ma alla vigilia del primo appuntamento un incantesimo trasforma le loro fattezze fisiche donandogli un aspetto completamente diverso e impedendo così un loro nuovo incontro.

Per oltre due ore, il film mostra i due ignari personaggi passarsi accanto nel parco Besik Gabashvili e lungo il ponte Bianco, che attraversa il fiume Rioni. La scena già di per sè iconica è accompagnata dalle note di “Un'estate italiana” di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, quella composta per i mondiali di Italia 90, per suggerisce che, laddove non possiamo ancora viaggiare nello spazio, forse è il tempo la linea da percorrere in questo strano periodo di sospensione.

Davvero ci manca il poter esplorare liberamente città e luoghi conosciuti o ignoti, questo film è un buon lenitivo.


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