La Russia è di nuovo il paese dei Cosacchi

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I nipoti degli epici cavalieri dell'Esercito imperiale russo, il braccio armato dello zar,  sono diventati un efficiente spauracchio da ostentare da quando il presidente Putin li utilizza per  incutere timore agli integralisti islamici di Cecenia, Daghestan e Kabardino Balkaria e anche ai giovani piccolo borghesi delle grandi città che da qualche tempo hanno preso l'abitudine di inscenare grandi manifestazioni di piazza contro il potere. Da dove gli nasce tanta fiducia nei cosacchi? E' una storia che merita di essere conosciuta. 

Cosacchi6Su quella stessa piazza di Mosca dove sorge la cattedrale di Santa Caterina, e il mausoleo con la salma imbalsamata di Vladimir Lenin, duecento e passa anni fa giunse Golovatij, il capo, l'ataman dei cosacchi Zaporoghi, col suo mantello vermiglio sulla cerkeska nera, la lunga barba e in testa il colbacco di astrakan da combattimento. Prese il sale e il pane che una fanciulla bionda gli porgeva come segno di benvenuto sulla nuova terra e sguainò la spada davanti ai suoi soldati. 

Lui che aveva combattuto mille battaglie e aveva pianto la morte di Pugacev il ribelle, il condottiero che per i cosacchi era stato lo "zar della speranza"; il temerario che aveva osato sfidare Caterina la Grande  mettendo le Russie a fuoco e fiamme finché non era stato catturato e condotto davanti a San Basilio a Mosca sul Lobnoie Mesto, il cippo di marmo dove venivano eseguite le condanne. La sua testa cadde per prima con un colpo di mannaia, poi il suo corpo smembrato in quattro parti fu trascinato dai cavalli intorno alla piazza perché chi non avesse visto potesse capire quale sorte spettava a chi osava ribellarsi all'Imperatrice. 

Ma oramai erano passati dall'esecuzione vent'anni e l'armata cosacca, che si era coperta di nuova gloria sul Mar Nero, nella guerra contro i turchi della Sacra Porta, aveva ricevuto le terre del Kùban, nel Nord del Caucaso, e il metropolita aveva alzato la mano per benedire l'ataman Golovatij, i suoi Zaporoghi ed Ekaterinodar, il "Dono di Caterina", cioè la terra sulla quale sarebbe sorta la città fortezza con 43 villaggi che quei figli di nomadi della steppa si apprestavano a costruire, 1792 anni dopo la nascita della Santa Russia. E che nel 1920 sarebbe stata ribattezzata col nome di Krasnodar dato che, in russo la parola krasnij può intendersi con i tre diversi significati di rosso, di bello e di splendido dei quali ciascuno potevano andar bene nel Paese della rivoluzione rossa. 

Ma dovettero trascorrere settant'anni e passa prima che potessero ricomparire (giugno 1992) nella piazza di Krasnodar i cosacchi. Per primo vi giunse Aleksandr Gavrilovich Martynov, quarantenne piccolo e tarchiato, direttore dell'autorimessa n. 14 di Mosca, assieme ai capi dei cosacchi del Don e del Kùban, della Siberia e dell'Ussuri, del Dnepr e degli Urali. Si erano ritrovati per celebrare  la rifondazione degli Zaporoghi del Kùban, dopo che il primo presidente del periodo post sovietico Boris Eltsin con un decreto  li aveva riabilitati considerandoli "vittime della repressione sovietica". 

E così rifondandosi in gran pompa, con una certa alterigia e un ostentato vigore, da allora i cosacchi sono tornati ad essere la reincarnazione della fede-nazione, della russificazione storica e patriottica dei particolarismi etnici che agitano l'immenso Paese dentro i suoi confini. Il loro compito è diffondere tra le genti russe quel coraggio necessario per rinsaldare la rete degli interessi comuni capace di frenare le spinte centrifughe. 

Così li vuole Putin, che li foraggia e li sostiene. Essi gli servono. Fino a ieri li aveva impiegati soltanto nella guerra vera, durante l'invasione del territorio georgiano nel 2009, inviando battaglioni cosacchi in Ossetia e Abkhazia del Sud. Adesso li utilizza per  incutere timore agli integralisti islamici di Cecenia, Daghestan e Kabardino Balkaria e anche ai giovani piccolo borghesi delle grandi città che da qualche tempo hanno preso l' abitudine di inscenare grandi manifestazioni di piazza contro il potere. 

Infatti,  a Mosca capita spesso di  vederli aggirarsi pure nelle ore notturne, come ronde di quartiere in uniforme storica, pronti a dare una lezione a qualche ubriaco un po' troppo sguaiato o a segnalare rabbiosamente alla polizia eventuali «comportamenti immorali» sui marciapiedi di periferia. Marziali e spavaldi. Forgiati nelle loro nuove accademie, centri di addestramento, scuole religioso-militari protette, benedette, e gestite dal Patriarca ortodosso in persona, il quale non vuole perderne la tutela dal momento che persino Tolstoj ebbe ad affermare che «furono i cosacchi a creare la Russia». 

In fondo, questo inizio di Ventunesimo secolo è agitato dalla stessa ansia del Diciottesimo, che portò Caterina a rimettere ordine nell'impero con molte ingiustizie e contraddizioni, poiché anche allora, come ricorda l'acuto cronista dell'epoca Vinskij, «il problema sta soprattutto nella mancanza di personale competente». A Vladimir Putin questo ritorno degli uomini con i pantaloni blu dalle bande rosse, che un tempo indicavano l'esenzione dalle tasse gli va benissimo, sebbene i cosacchi non siano proprio una garanzia di fedeltà assoluta allo Stato, come constatarono nei secoli molti zar preoccupati dalla turbolenta e intermittente obbedienza dei loro migliori cavalieri. 

Ma a Putin, ansioso di "bonificare" le difficili aree del Caucaso islamico e separatista, e impegnato a tenere sotto controllo le piazze, essi gli diventano indispensabili. Sono per lui un efficiente spauracchio da ostentare anche durante le recenti manifestazioni che hanno agitato le piazze di 28 città della Russia in seguito alla condanna del giovane blogger Navalnyj e al tentativo di Putin di chiudere per sempre la bocca al dissenso. 

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Dopotutto da secoli, come si legge sui libri di storia, ogni qualvolta è arrivato in Russia il vento del cambiamento, i cosacchi, in sintonia con la loro natura ribelle, non sono mai stati dalla parte del nuovo, e meno ancora del dissenso. Hanno sempre difeso e con tenacia la conservazione, anche se da sempre nell'organizzazione dei clan applicano una sorta di socialismo con la proprietà collettiva nelle stanitze, cioè i villaggi; e una democrazia rappresentativa con l'elezione dell'ataman, il loro capo, a suffragio universale. Non vanno oltre. 

Infatti la storia li dipinge come il braccio armato dello zar.
Sono loro che sopprimono le rivolte, e sono ancora loro che combattono i bolscevichi, e l'ultima cavalleria, le ultime cariche dei "bianchi" sono proprio quelle dei cosacchi. 

E quando nel 1944 l'ataman del Don, l'ex generale zarista Piotr Nikolaevic' Krassnov, dal suo esilio in Francia lancia l'appello, riecco alcuni reggimenti con le famiglie e i carriaggi, le armi e i cavalli, schierarsi in Bielorussia a fianco dei nazisti  per combattere una guerra che li porterà dopo la ritirata dalla Russia di Stalin, nel Kosakenland Nord Italien, come la Carnia era stata ribattezzata dalle autorità hitleriane. 

Le quali avevano imposto ai «residenti degli agglomerati italiani - considerati politicamente ostili - di lasciare le case delle quali fruiranno i cosacchi, in particolare quelli del Don». Vi soggiorneranno dieci mesi. Poi, molti moriranno durante la ritirata, in una disperata fuga attraverso il fiume Drava, incalzati dalle truppe scozzesi che consegneranno poi i superstiti ai sovietici che li interneranno. 

I russi, che li guardano ogni qualvolta sfilano splendenti di alamari e di medaglie sull'uniforme da parata, non si pongono affatto problemi di ricorsi storici. Il pubblico russo sembra gradire, quasi gustare questo "risveglio di guerrieri" che non poteva essere più inaspettato, più repentino e più totale. 

Insomma, la Russia è di nuovo il paese dei cosacchi.
Sono tutti giovani che non chiedono scusa alla Storia, non sono guerrafondai, né "signori della guerra" ccosacchi copyome i loro antenati, sanno di rappresentare la tradizione russa, che è sopravvissuta a tutti i regimi del loro tormentato Paese.
«Noi vogliamo la rinascita dello spirito della Santa Russia, siamo schierati a fianco dell'Ortodossia.
 
Non crediamo alle promesse dei governanti, ma a quelle del Sacro Sinodo. Nei nostri villaggi abbiamo aperto le scuole di catechesi: i nostri figli devono sapere dov'è la verità», mi diceva con un lampo negli occhi Nikolai Liasenko, agronomo del villaggio Zelenciukskaia di Krasnodar e poi ufficiale in servizio permanente dei cosacchi a Mosca.
La divisa  gli avrebbe assicurato nella Mosca dei pochissimi ricchi e dei tantissimi poveri, una vita dignitosa all'ombra della bandiera verde, rossa e azzurra, dove il verde sta a indicare i cosacchi delle Repubbliche asiatiche, l'azzurro quelli dell'Ucraina e il rosso al centro quelli della Russia. 
Ogni domenica i pope benedicono la coda dei “guerrieri” che entrano e baciano tre volte l'immagine di Gesù nella cattedrale di Santa Caterina a Mosca, poi chinano la fronte sul vetro della teca segnandosi tre volte.
Benedicono la bandiera che s'ammaina sotto le volte dipinte in onore e in ricordo del dono dell'imperatrice e poi indicano il vessillo alla folla, quasi a voler significare con quell' aspersione benedetta che attorno ad esso è raccolta una forza capace di infondere nuove energie morali in una Russia ormai simile alla Spagna di Filippo IV e all'Inghilterra di fine Ottocento, imperi insieme formidabili, ma fradici all'interno. 

Eppure come non provare timore e inquietudine per questo sistema di fede testimoniato dalla tradizione più che dal desiderio di rinnovamento, conservato nei segni antichi di una fedeltà religiosa che, nonostante tutto, continua a tramandarsi da più di quattro secoli, cioè da quando gli Zaporoghi ne fecero l'insegna nella guerra contro i cattolici-polacchi. 

«La difficoltà maggiore sta nel fatto che in settant'anni il potere comunista ha cercato con tutti i mezzi di cancellarci e nel contempo di screditarci agli occhi del popolo», ha scritto Nikolai Ozerov, docente di Storia, e capitano dei cosacchi del Don.
«Non a caso dal 1992 ci siamo imposti il motto "Rinascita", poiché siamo come un albero che è stato sradicato. Se non avessimo avuto la religione non avremmo avuto di che nutrire le nostre radici. L'Ortodossia rimane il nostro sostegno, senza di essa non saremmo rinati». 

Mi ricordo quella domenica di giugno del 1992 a Krasnodar, dove si celebrava la prima festa della riabilitazione cosacca. Erano in tantissimi che si avviavano verso la Casa della Cultura, dove avrebbero tenuto  la loro prima assemblea pubblica.  Quei "guerrieri" che avevano dimenticato come si andava a cavallo, che avevano preso a prestito pugnali e spade dai teatri, poiché «se la polizia avesse trovato nelle nostre case una divisa o peggio ancora una lama, sarebbe stata per noi la prigione», si muovevano sicuri e padroni tra le automobili e gli autobus e puntavano al caffè della cooperativa nella ricerca vana di una bottiglia di vodka. 

La gente che faceva ala al corteo li guardava mentre mangiavano le salsicce, che secondo loro erano le migliori del mondo: li osservava e forse ravvisava, nelle cartucciere cucite sul petto della cerkeska, gli involucri d'alluminio dei sigari “Avana" che un tempo si riuscivano a comperare nelle tabaccherie sovietiche al prezzo di 85 copeki e che in quel 1992, in piena perestrojka,  non si trovano più.
 
Oppure riconosceva la pelle nera degli stivali da donna ritagliata per fare il nabor, cioè la cintura con dieci borchie trovate negli scarti della fabbrica; o magari rivedeva sulle spalline i nastri di lamé che servivano per abbellire gli abiti da sposa e che si trovavano nei magazzini a 60 copeki al metro e che in quel giugno al mercato nero non valevano meno di sei rubli. 
A quel tempo non c'erano ancora i negozi per questo look della nostalgia e bisognava arrangiarsi da soli, cominciando a raccattare quanto serviva per rifare l'uniforme, per essere pronti quando si annunciava il raduno.
E questo far da sé dei cosacchi faceva parte della loro singolare capacità di star fuori e dentro la società sovietica, uscendone - dopo che gli fu loro permesso - quando volevano: bastava mettersi in testa il papacha e allacciarsi la sciabola. Cosa che si ripete anche nella Russia di Putin
 
Mi ricordo Pantelei Ivanovich (non chiedetemi dopo trent'anni il cognome) che scuoteva la testa e diceva che i cosacchi della nuova generazione che non sapevano andare a cavallo non gli infondevano fiducia.
Lui abitava nella stanitza Pash-kovskaia che il pittore Ilia Rèpin scelse come fondale per la sua famosa tela “I cosacchi scrissero una lettera  al sultano ottomano”.
Abitava in una casina di legno con la moglie Aleksandra Semionovna, il nipote Igor, due cavalli bai e molti topi che gli avevano rosicchiato il vecchio album con le fotografie. 
Ma i ricordi di Pantelei Ivanovich rimanevano vivissimi e così singolari che facevano tornare in mente quelli dei cosacchi del romanzo di Babel, perciò li conservai nel taccuino degli appunti.
 
Mi raccontò che, «Quando partii per il fronte mio padre mi disse di ritornare col petto coperto di medaglie, altrimenti era meglio che mi facessi tagliare la testa dietro un cespuglio.
Combattei nel "Reggimento Sterminio", il cui compito era di fiaccare i tedeschi in ritirata. Ci lanciavamo alla carica dopo l'intervento dell'aviazione, nel fragore di sessantamila zoccoli e nel luccichio di quindicimila spade. Allora che ero ben saldo nelle gambe e avevo molta forza nelle braccia con un colpo solo di sciabola riuscivo a fare di un cristiano due metà. Avevo una cavalla, Ciaika, cioè gabbiano, l'avevo chiamata così tant'era agile, benché fosse nera come la notte sulla steppa cosacca». 
Pantelei Ivanovich si ritroverebbe sconcertato nella Russia di Putin collassata dal disagio sociale, con l'ultima generazione di cosacchi che si affiancano alle forze di polizia in un pattugliamento congiunto che mira a far osservare i divieti a mantenere l'ordine pubblico, a sedare i tumulti.
Beninteso, così operando essi sono riusciti a riapprioparsi degli antichi fasti, semplicemente usando manganello.
Ma con la sciabola - direbbe Pantalei - è tutt' un'altra cosa.

 

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Vincenzo Maddaloni
Vincenzo Maddaloni ha fondato e presiede il Centro Studi Berlin89, l'associazione nata nel 2018, che si propone di ripercorrere analizzandoli i grandi fatti del mondo prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Professionista dal 1961 (per un decennio e passa il più giovane giornalista italiano), come inviato speciale è stato testimone in molti luoghi che hanno fatto la storia del XX secolo. E’ stato corrispondente a Varsavia negli anni di Lech Wałęsa (leader di Solidarność) ed a Mosca durante l'èra di Michail Gorbačëv. Ha diretto il settimanale Il Borghese allontanandolo radicalmente dalle storiche posizioni di destra. Infatti, poco dopo è stato rimosso dalla direzione dello storico settimanale fondato da Leo Longanesi. È stato con Giulietto Chiesa tra i membri fondatori del World Political Forum presieduto da Michail Gorbačëv. È il direttore responsabile di Berlin89, rivista del Centro Studi Berlin89.
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