Scuola, un'emergenza tutta italiana

In Italia si erogano mediamente in un anno scolastico 990 ore per alunno della scuola dell’obbligo. Il totale di ore lungo tutto il percorso è tra i più alti al mondo. Lo stesso vale per la durata dell’anno scolastico: l’Italia – con 200 giorni di lezioni per le scuole elementari, medie e superiori – è il Paese col maggior numero di giorni di scuola in tutta Europa, alla pari con la Danimarca.

scuola1 Invece, l’abbandono scolastico in Italia è al 13,1% nel 2020 – vale a dire che in media più di 10 ragazzi su 100 lasciano la scuola. Situazione peggiore in Europa la troviamo solo a Malta (16,7%), in Spagna (16%) e in Romania (15,6%). In termini di business potremmo dire quindi che, a fronte di un servizio labour intensive, la “clientela” della scuola è sempre più disaffezionata.

Quanto agli insegnanti, essi hanno perso il loro residuo prestigio professionale e, invece di educatori e portatori di conoscenza da ascoltare con rispetto, sono sempre più considerati degli impiegati pubblici poco produttivi. Nonostante il fatto che il loro impegno contrattualmente prescritto non si esaurisca nelle 36 ore settimanali: la didattica, per gli insegnanti coscienziosi, non finisce né in classe né a scuola, ma si prolunga a casa e spesso anche nel fine settimana.

Il tutto in un quadro di soffocanti adempimenti burocratici, che mediamente portano sul tavolo di un docente almeno una circolare al giorno: da leggere, interpretare, applicare. Oltre ovviamente alle email con cui oramai si comunica in qualsiasi ambiente di lavoro.

In media ogni insegnante si trova 20,34 alunni per classe, nonostante in termini assoluti gli studenti di tutti gli ordini scolastici siano andati diminuendo dai 7.714.557 dell’anno scolastico 2005-2006 ai 7.507.484 del 2019-2020. Intanto, sono cresciuti del 24%, in soli cinque anni, tra il 2015 ed il 2020, i ragazzi con vari tipi di problematiche certificate, e gli alunni stranieri, che rappresentano oggi oltre il 10% del totale: vale a dire che mediamente 2 alunni sui 20 di ogni classe sono di origine straniera. Questo ovviamente solo per indicare le problematiche sempre più complesse che ogni docente deve saper affrontare in una classe.

Quando si parla quindi dei disagi dovuti al Covid si dovrebbe avere il coraggio di sottolineare che essi hanno aggravato ma non certo creato problemi strutturali già radicati da tempo, che i governanti non hanno mai saputo o voluto affrontare, al di là del succedersi dei vari ministri. Nell’insieme possiamo dire che in Italia sono state seguite tre linee strategiche nell’ultimo mezzo secolo di politica della scuola.

La prima è la cosiddetta autonomia scolastica, che ha prodotto una stratificazione di leggi, regolamenti e circolari che potrebbero riempire diversi scaffali di una biblioteca. La sostanza è che si è semplicemente creata una competizione fra scuole, oggi a caccia ogni anno di alunni da strappare alla “concorrenza”, per ottenere fondi, spazi, docenti: con ovvio dispendio di tempo e risorse, con insegnanti che si trasformano per alcune settimane in uomini/donne marketing, per promuovere il proprio istituto! Con l’ovvio risultato che le famiglie, se dispongono di figlioli mediamente diligenti, scelgono sempre di più i licei; se hanno in casa degli scansafatiche, li spingono verso gli istituti professionali, il cui livello è quindi progressivamente sceso – nonostante la loro importanza strategica per il mondo del lavoro odierno.

In realtà, la scuola operativa, quella degli insegnanti e degli alunni (non quella dei ministri), dipende più che mai dalle sempre più arzigogolate programmazioni ministeriali, spesso mutevoli secondo chi c’è al governo. Gli istituti dipendono sempre più da dirigenti che si devono soprattutto preoccupare di analizzare, diffondere e applicare regolamenti che calano dall’alto, spesso contraddicendosi. Il corpo insegnanti non ha nessuna reale autonomia, quella che dovrebbe avere, per gestire la scuola in modo aderente alla realtà.

I docenti particolarmente preparati e motivati, che sono tanti, devono quindi ogni giorno lottare contro il castello di carte della burocrazia ministeriale per potere sviluppare una didattica che coinvolga gli studenti e dia risultati concreti.

La seconda fondamentale linea strategica ce l’ha data l’Unione Europea, figlia primogenita delle Comunità Economiche Europee. Essa ha fatto della scuola il luogo dove si devono preparare i giovani per il mondo del lavoro, pronti per l’uso potremmo dire. La tradizione italiana dello studio come formazione della persona, educazione a valori umani e civili, sviluppo della conoscenza di sé stessi e consolidamento della personalità – è stata azzerata: sopravvive solo grazie a quegli insegnanti che l’applicano semplicemente perché la ritengono fondamentale.

Così facendo, si è mandato un messaggio profondamente distorsivo – in primo luogo proprio alle aziende: cioè che la scuola prepara i futuri dipendenti, proprio come nell’esercito si formano i soldati per la guerra. Errore grave: perché nella scuola non si possono costruire le competenze tecniche oggi richieste da una divisione del lavoro sempre più complessa ed in continuo mutamento.

Assurdo pensare che la scuola debba quindi rincorrere l’evoluzione tecnologica. Per far questo esiste, sin dai tempi di Napoleone, la formazione professionale, che, ironia tutta nostra, è invece pochissimo utilizzata dalle aziende in Italia – nonostante i fondi pubblici non manchino.

In questo modo, l’azienda si aspetta dalla scuola quello che essa non potrà mai dare; la scuola a sua volta rincorre il mondo del lavoro, spesso con progetti che sottraggono tempo prezioso allo studio dei contenuti fondamentali delle varie discipline; gli alunni, e con loro le famiglie, si trovano spesso delusi alla fine di un percorso di studi, o perché non trovano il lavoro che speravano o perché scoprono che non è quello che si aspettavano: per cui demotivazione, delusione, rifiuto – anche rispetto al mondo del lavoro.

Terzo punto chiave di questi decenni: l’informatizzazione. Nonostante gli stessi pedagoghi statunitensi, che decenni fa la promuovevano nelle scuole, oggi ne denuncino i disastri, l’Italia ha speso milioni di euro per dotare le scuole di strumentazioni elettroniche, la cui utilità didattica è come minimo assai limitata, ma che impegnano gli insegnanti di ogni ordine e grado ad acquisire competenze informatiche spesso tardive e abborracciate. Contemporaneamente vengono massivamente imposti, fin dalle elementari e dalle medie, strumenti elettronici che ostacolano lo sviluppo di capacità fondamentali: concentrazione, creatività, autonomia di pensiero, senso critico.

Questo è accaduto mentre i ragazzi, oramai dotati di smartphone praticamente dalla culla, passano il tempo incollati a questi strumenti, anche se in realtà sanno ben poco dei rischi e dei limiti del loro funzionamento. Ma sono stati convinti di essere nativi digitali, e quindi di essere un passo avanti a tutto il resto del mondo, mica come quei barbogi che ancora perdono il tempo sui libri. La risposta classica, quando si suggerisce l’approfondimento di un concetto o di una nozione a un ragazzo, oggi è: «Ma, prof, a che mi serve? … tanto trovo tutto su Google!»

La pandemia ha aggravato tutto questo in termini di comunicazione interpersonale – ma forse ha fatto capire quanto questi celebrati strumenti telematici in realtà impoveriscano la vita e la didattica, cosa che rappresenta forse il solo lato positivo dell’esperienza, per il resto pesantemente negativa, della scuola in lock-down.

Tutto da buttare dunque nella scuola italiana? Nient’affatto.

Primo, abbiamo la nostra cultura, i giganti della nostra cultura: essa è una base indistruttibile. Il rischio che corriamo è di dimenticarcene, e di metterla quindi poco a poco da parte.

Secondo. Abbiamo centinaia e migliaia di bravi insegnanti, che hanno imparato ad insegnare studiando e praticando le loro classi con dedizione e impegno: essi sono rispettati, amati e seguiti, riescono a tenere la disciplina, con autorevolezza, senza bisogno di urlare e di mettere note. Sono un patrimonio di enorme valore. Rischiamo di emarginarli, sommergendoli di questionari, modelli e adempimenti che non servono assolutamente a niente: compiti un tempo segretariali, che per mancanza di personale ricadono sugli insegnanti.

È prima di tutto a loro che si dovrebbe affidare il futuro della scuola: dandogli modo di liberare tutte le loro capacità, le loro energie, le idee, l’esperienza di cui dispongono. Prima ancora di aumentare gli stipendi (lo meriterebbero…), è questo che serve: devono essere loro a gestire le nostre scuole, non i burocrati annidati nei ministeri, che non hanno la minima idea di cosa sia oggi mandare avanti una classe.

La valutazione sugli alunni (profitto, condotta, esami) non deve essere legato a tabelle e circolari ministeriali, deve essere lasciato a questi insegnanti, sotto la loro doverosa responsabilità. Sono loro che a loro volta potranno produrre insegnanti validi per il futuro, passando loro il testimone. Se demotiviamo e soffochiamo le loro energie, anche con tutte le riforme del mondo non esiste futuro per la scuola attuale.

Incidentalmente, domandiamo: a cosa serve fare esami di Stato che promuovono il 99,9% (dati ministeriali 2022) dei candidati ogni anno? Aboliamoli, risparmieremo tempo e denaro. I ragazzi sanno benissimo che essere bocciati agli esami di Stato è oggi praticamente impossibile… Facciamoli valutare dai loro insegnanti a fine anno.

Terzo. Può sembrare banale: via i cellulari dalla scuola, subito e radicalmente. Quando i ragazzi entrano a scuola, come in altri Paesi, lasciano il telefonino in un armadietto. Lo riprendono quando escono. Basta un decreto di dieci righe.

Allo stesso modo, gli strumenti elettronici è bene utilizzarli non prima delle superiori: prima sono o del tutto inutili, perché i ragazzi se vogliono imparano ad usarli da sé, o danneggiano le loro capacità di esprimersi, ricercare, confrontarsi, socializzare. Quando poi si insegna ad usarli, alle superiori appunto, bisogna evidenziarne bene pregi e difetti, da un lato; dall’altro i collegamenti con la logica, la matematica, il pensiero umano – far capire insomma che sono strumenti potentissimi, e per questo è essenziale come li usiamo.

Quarto. Le aziende non devono pretendere che la scuola produca ragazzi di 18 anni già esperti per quello che devono fare in azienda. Formare lavoratori competenti è compito dell’azienda, supportata da risorse proprie e (ci sono) pubbliche. Le aziende devono invece esigere che arrivino loro ragazzi con basi solide (linguistiche, matematiche, tecnologiche, umanistiche, eccetera eccetera, secondo i settori), motivati, pronti a impegnarsi, con voglia di crescere, umiltà, auto-disciplina, senso del dovere, spirito di sacrificio, capacità di interagire con gli altri. A questo scuola e famiglie devono educarli prima di tutto.

Quinto. Gli insegnanti, ogni cinque-sette anni almeno, devono poter usufruire di un anno di esperienza nel mondo del lavoro: profit, non profit, pubblico – quello per cui sono più qualificati È questo è il vero sistema con cui scuola e mondo del lavoro possono restare validamente collegati. Con un doppio beneficio: l’insegnante torna in classe più vivo, motivato, up-to-date, guadagnando prestigio e autorevolezza coi suoi alunni. L’azienda può fornirgli indicazioni sui cambiamenti in atto, le criticità, le prospettive di sviluppo, e ricevere magari anche qualche indicazione utile su come la scuola sta lavorando. In questo modo avremmo uno scambio efficace fra il mondo del lavoro e quello della conoscenza.

Nessuno di questi cinque punti, sottolineo, costerebbe una lira in più al cittadino: forse anzi si risparmierebbe qualcosa.

Cosa stiamo aspettando?

Note: G. Cappellano, Crescere nell’era digitale, Edilibri, Milano, 2018


sinatti 1Gaetano Sinatti, ha vent'anni e passa di esperienza in Formazione Professionale e Istruzione (VEt) come progettista, project manager, insegnante e consulente. Senior Expert in Unione Europea ha finanziato la progettazione e la gestione di progetti, in particolare nei programmi Leonardo da Vinci/Erasmus Plus, Interreg e Life. Attualmente è coordinatore del  Centro Libero Analisi e Ricerca CLAR.

 

 

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