Rincorsi a frustate. E' il benvenuto del cattolico Biden

Le immagini dei migranti haitiani cacciati da agenti a cavallo hanno fatto il giro del mondo. Gli afro-americani hanno guardato agli eventi in Texas con un misto di orrore in più per i ricordi che la scena immortalata riporta alla memoria collettiva.

immigra Daniel Moskowitz

Photo/Daniel Moskowitz

La prima immagine che colpisce dell’ultima crisi migratoria al confine fra Messico e Stati Uniti è quella dei poliziotti a cavallo che usano il lazzo dei loro cavalli a mo’ di frusta, per allontanare masse di emigranti dalla riva statunitense del Rio Grande, sul tratto texano del confine. “I soliti texani dagli occhi di ghiaccio” verrebbe da commentare. Eppure l’ordine di chiudere il confine è partito dalla Casa Bianca di Biden. Dunque dal presidente che prometteva una svolta netta nella politica dell’immigrazione rispetto a Trump.

 Qualche cifra aiuta a capire la tensione che si è creata al confine un mercoledì  di settembre quandosono giunti  nove mila emigranti haitiani nella città di confine di Del Rio, in Texas. Tre giorni dopo, altri sei mila hanno attraversato il Rio Grande per entrare negli Usa. Si sono accampati in condizioni igieniche più che precarie, con poca acqua e poco cibo, assistiti solo dalla buona volontà di cittadini e autorità locali. In totale, gli haitiani entrati in questo modo nel confine texano sono trentacinque mila. A questo flusso improvviso di immigrati, il governo federale ha risposto chiudendo il confine. Di qui le scene dei poliziotti a cavallo che respingono in malo modo, praticamente “a frustate” quelli che ancora provavano a varcare il Rio Grande. Veicoli della polizia texana hanno bloccato il ponte internazionale e, più lontani dalle telecamere, tre voli hanno riportato gli immigrati illegali a Port au Prince, capitale di Haiti.

 Questa crisi segue di appena pochi mesi quella della scorsa primavera, quando una massa sempre più incontenibile di emigranti dall’America centrale premeva sui confini, chiedendo asilo. Ed erano soprattutto i bambini non accompagnati quelli che si vedevano maggiormente. Anche sotto l’amministrazione Biden, come in quella di Trump, i bambini sono stati temporaneamente confinati in centri di prima accoglienza, nelle “gabbie” che negli anni di Trump avevano suscitato tanto scalpore e che ora vengono viste come soluzione temporanee e necessarie.

 

Può “dirsi cristiano” chi prende a frustate gli immigrati?

Doppiopesismo a parte, la risposta dell’amministrazione Biden all’immigrazione illegale dovrebbe porre seri interrogativi alla minoranza cattolica che ha votato il presidente cattolico, soprattutto sulla base della sua politica dell’accoglienza. Il programma di Biden, da un punto di vista cattolico, è infatti una lunga lista di “nonostante”. Votarlo ugualmente, nonostante la sua politica ultra-abortista, nonostante la sua politica sulla famiglia, nonostante la sua politica sui “nuovi diritti” gender e transgender, nonostante la condiscendenza verso istituzioni culturali che vogliono sopprimere la libertà di religione, nonostante sia intenzionato a riformare ed ampliare la Corte Suprema che conta per la prima volta una maggioranza di giudici cristiani e conservatori? Alla fine restava solo la politica dell’accoglienza degli immigrati a far la differenza. Ma ora, se non può “dirsi cristiano” chi erige muri, può dirsi tale chi prende a frustate gli immigrati? Si rischia di cascare, anche qui, nel solito doppiopesismo, indotto dall’ideologia liberal condivisa dalla stragrande maggioranza dei media americani: tutto va bene, basta che venga da sinistra.

 La seconda riflessione, invece, è su quale possa dirsi una politica dell’immigrazione più morale. Prima di tutto: se quella di Haiti è veramente una crisi umanitaria, perché l’immigrazione dall’isola non è considerata come un problema di rifugiati da accogliere? Come spiega Todd Bensman, ricercatore del Center for Immigration Studies al New York Post, (e come confermano, ormai, numerose interviste sul campo): «Non ho ancora incontrato un emigrante che venisse direttamente da Haiti. Ma stanno probabilmente chiedendo asilo sulla base dei problemi scoppiati ad Haiti», secondo il ricercatore, gli haitiani già avevano una loro vita lavorativa in Sud America, molti arrivano dal Brasile dove avevano lavorato per le ultime Olimpiadi. Poi: «Dicono di aver sentito che Joe Biden stava aprendo i confini, così sono arrivati». È evidente che anche qui, come nel caso delle navi delle Ong nel Mediterraneo, è entrato in gioco un “fattore di attrazione”.

È l’atteggiamento di Biden-Harris sull’accoglienza, molto più delle crisi haitiane, a spingere queste decine di migliaia di persone a tentare l’attraversamento illegale del confine. È un modo morale e responsabile di gestire l’immigrazione? Certamente no. Prova ne è che la stessa amministrazione Biden-Harris deve poi ricorrere alla chiusura del confine per evitare una crisi umanitaria in patria. Non puoi promettere qualcosa che poi non può essere mantenuta, per ovvi motivi di spazio. Non si possono processare trentacinque mila pratiche di richiesta di asilo in una sola settimana, mentre il numero di richiedenti cresce di migliaia ogni giorno. Certamente si deve esigere che siano usati metodi e strumenti umani (niente fruste, niente gabbie per detenere i bambini), ma non si può pretendere che i confini siano lasciati aperti senza controllo.

 È morale aspirare all’utopia di un mondo senza confini, in cui non è neppure necessario chiedere asilo, o dimostrare di averne diritto, perché chiunque può spostarsi ovunque e insediarsi dove vuole? Se è innegabilmente un diritto la libertà di movimento, altrettanto non si può dire che lo sia la libertà di insediamento. L’accoglienza del prossimo nella propria casa o nel proprio Paese deve restare un atto volontario. Se è imposto (con la forza, con il voto, o dal mero peso della massa) il diritto dell’uno diventa un esproprio dell’altro. L’intellighenzia di sinistra è orientata verso questa soluzione di esproprio “planetario”. Ma di fronte a questa prospettiva, in concreto, anche un presidente di sinistra, cattolico, punta i piedi e frena. Adottando gli stessi metodi di chi era condannato perché erigeva muri.


magni stefanoStefano Magni, nato a Milano nel 1976, è un giornalista e saggista. Laureato in Scienze Politiche all'Università degli Studi di Pavia nel 2001, con una tesi sulla politica estera sovietica nel Medio Oriente. Ha pubblicato con l’editore Libertates “Contro gli statosauri, per il federalismo” (2010) e “Quanto vale un Laogai? Gli occidentali e il mistero della Cina” (2012). “Piazza Caporetto, controstoria della Grande Guerra” (2015). Per la Fondazione Magna Carta ha pubblicato il libro-inchiesta “It’s Tea Party Time. Stato e individuo nell’America del XXI Secolo” (Magna Carta, Roma, 2011). Ha tradotto dall’inglese e curato l’edizione italiana del classico della scienza politica “Stati Assassini” di Rudolph J. Rummel (Rubbettino, Soveria Mannelli 2005) e per l’Istituto Bruno Leoni ha curato il libro “La signora non torna indietro. I grandi discorsi di Margaret Thatcher” (Ibl Libri, Milano, 2013). Collabora come associato al corso di Economic Geography presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano.

 

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