Riflessioni sulla Guerra fredda di Giulietto Chiesa

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Chi ha costruito il Muro di Berlino? si chiedeva Giulietto Chiesa, una vita tra giornalismo e politica che si è spento oggi 26 aprile all'età di 79 anni. Non era un personaggio facile con ideali politici sovente arditi e pertanto non da tutti gradito, ma è onesto ricordarlo come un giornalista scrupoloso, di alto profilo e di indiscussa lealtà. Volentieri riproponiamo questo suo contributo apparso sulle nostre pagine per celebrare i trent'anni della caduta del Muro, tema fondante del Centro Studi Berlin89.

Il Muro costituisce la metafora e la sintesi dell’intera Guerra fredda. È uno dei principali fondamenti della sconfitta definitiva del socialismo reale, di fronte alla straordinaria capacità affabulatrice del capitalismo nella sua fase matura. Ma il Muro segna anche, al tempo stesso, l’inizio della manipolazione di massa in forme completamente nuove rispetto al passato e il mutamento radicale delle stesse forme della competizione geopolitica.

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Per capire il significato che il Muro ha assunto nell’immaginario collettivo dell’Occidente, si può partire dal discorso che il presidente americano John Kennedy pronunciò il 26 giugno 1963 a Berlino, dall’alto di un’impalcatura nei pressi della porta di Brandeburgo, dal quale poteva gettare uno sguardo dall’altra parte: 
“Ci sono molte persone al mondo che non comprendono, o non sanno, quale sia il grande problema tra il mondo libero e il mondo comunista. Fateli venire a Berlino! Ve ne sono alcuni che affermano che il comunismo rappresenta l’onda del futuro. Fateli venire a Berlino! Ve ne sono altri, in Europa e altrove, che invitano a collaborare con i comunisti. Fateli venire a Berlino! […] Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino. Ecco perché, come uomo libero, sono orgoglioso di gridare Ich bin ein Berliner, sono un berlinese”.

Quell’esclamazione fu il titolo di migliaia di articoli, di trasmissioni radio, di reportage televisivi. Il Muro di Berlino era stato alzato da due anni. Era sorto il 13 agosto del 1961 e da quel momento divenne la bandiera, il simbolo, la dimostrazione definitiva della totale incompatibilità tra il “mondo della libertà” e il comunismo sovietico. Kennedy aveva definito le linee di demarcazione ideali alle quali ci si sarebbe dovuti attenere:

1. i due sistemi sono incompatibili;
2. non ci può essere collaborazione tra di loro;
3. noi siamo la libertà, loro l’oppressione.

La Guerra fredda era già cominciata da tempo. In realtà subito dopo la conferenza di Jalta. Ma, fino a quel momento, non aveva ancora trovato il suo inno, la sua motivazione ideologica, la sua rappresentazione.

Oggi, a 30 anni dalla caduta del Muro, possiamo già intravedere il baccanale delle celebrazioni di quella vittoria. È già avvenuto nel decennale e nel ventennale, ma al terzo decennio dal crollo sarà di molto superiore. Ed è chiaro il perché. C’è una ragione precisa per questo innalzamento del volume: tanta più enfasi sarà data all’evento quanto più serio è oggi il pericolo di una revisione di quella narrazione. Bisognerà sottolineare i fasti di quel trionfo proprio per sommergere sul nascere ogni tentativo di contestarlo. Lo si deve illustrare e spiegare a una nuova generazione che non lo conosce, che non l’ha vissuto. Specie in quest’Europa attuale, che di quella vittoria è la diretta conseguenza, bisognerà spiegare che essa era l’unica possibile soluzione, nell’interesse dell’Impero del Bene.

Si dovrà evitare, in primo luogo, che ci si domandi il perché di quel Muro. Per intravedere la risposta basta dare un’occhiata alla cronologia degli eventi. E poi riflettere. La Germania fu divisa, per accordo dei tre vincitori (la Francia fu inclusa dopo) in zone di occupazione. Lo decisero la Conferenza di Jalta (4-11 febbraio 1945) e la Conferenza di Berlino-Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945). Berlino era caduta in mano sovietica due mesi prima, il 2 maggio 1945.

Il 23 febbraio 1946 George Kennan inviò il “lungo telegramma” di 8mila parole al Dipartimento di Stato, dopo la morte di Franklin Delano Roosevelt. E fu, appunto l’inizio della Guerra fredda.
Da quel momento la linea degli Stati Uniti cambia radicalmente. Con l’Unione Sovietica non ci può essere alcuna intesa. La Germania dovrà essere ricostruita nell’interesse dell’Occidente, contro l’Urss.
Tutte le intese di Jalta e Potsdam saranno cancellate nei mesi a venire. Il 3 aprile 1948 Harry Truman firma il piano Marshall, che darà un formidabile impulso alla ricostruzione politica e industriale della Germania con centinaia di miliardi di dollari della ricca e intatta America.
 
Lo squilibrio che si crea è insostenibile. L’Urss è un Paese vincitore ma devastato e non può reggere il confronto.
Berlino – divisa, di comune accordo, in quattro zone di occupazione – diventa la platea di una contesa diseguale.
Con la rivalutazione unilaterale della moneta tedesca dell’Ovest, milioni di persone si riverseranno verso il benessere americano.
Gli occidentali formano la Repubblica federale tedesca il 23 maggio 1949. Ma poco prima, il 4 aprile, nasce a Washington l’Alleanza Atlantica, la Nato.
 
Attenzione alle date.
Il 24 giugno 1948 Stalin decide, in risposta, il blocco di Berlino Ovest, che si trasformerà in una devastante sconfitta propagandistica dell’Unione Sovietica. Solo dopo cinque mesi l’Urss sostituisce con uno Stato sovrano la propria zona di occupazione.
Il 7 ottobre 1949 nasce la Repubblica democratica tedesca (Ddr), con capitale Berlino (est).
Il Patto di Varsavia, strumento militare collettivo dei Paesi socialisti, nascerà addirittura sei anni dopo la Nato, il 14 maggio 1955.
Dal 1949 al 1961, ben 2,7 milioni di persone uscirono da Berlino. Solo nel 1960 se ne andarono in 200mila.
Alla Ddr restava solo la scelta tra arrendersi e chiudere la porta. Ma i rapporti di forza erano dati. Il Muro rimase per 28 anni. Adesso sarebbe tempo di distribuire le responsabilità tra le parti.

Sono addolorato dalla morte di Giulietto. Ci conoscemmo nel 1986 e migliorammo la reciproca conoscenza ogni sabato alla colazione dell'ambasciata italiana a Mosca, una occasione voluta dall'ambasciatore Sergio Romano (poi editorialista del Corriere) per uno scambio di opinioni con i corrispondenti accreditati nella capitale sovietica. In Unione Sovietica ci siamo ritrovati insieme in molti eventi, teatri di guerra (Afghanistan) inclusi. Insieme abbiamo partecipato alla fondazione del “World Political Forum”, con sede a Torino, ideato e presieduto da Mikhail Gorbaciov . Benché non ci scambiassimo d'abitudine gli auguri alla feste comandate, come usa di solito tra giornalisti, ci legava il rispetto, la fiducia reciproca, anche se ideologicamente non eravamo collimanti.
Vincenzo Maddaloni  

la Repubblica ricorda l'uomo, il giornalista, il politico con l'articolo di LARA CRINÒ

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