Il baratto infame: manodopera italiana-carbone tedesco o belga

Cinquecentomila lavoratori italiani fra l’inizio del 1938 e la prima metà del 1943 emigrarono in Germania. Gli italiani finirono con l'essere considerati degli individui di cui la Germania aveva bisogno e che allo stesso tempo la maggioranza della popolazione disprezzava.  i lavoratori italiani venivano trasportati, dai treni-merce su cui avevano viaggiato, in appositi carri-bestiame, a baraccopoli per essere allogiati

Generalmente si trattava degli stessi campi di prigionia usati dai tedeschi o dagli alleati durante il conflitto.  È storia d'Italia, ma anche d'Europa.
 
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Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, determinò in Europa problemi anche più gravi di quelli causati dalle crisi mediorientali e africane di oggi.
Negli anni, nei decenni immediatamente successivi, in attesa degli effetti sociali ed occupazionali delle varie "ricostruzioni" (industriali e degli Stati di diritto) di un continente devastato, i flussi migratori tra Stati europei furono imponenti. E gli italiani ne furono, purtroppo, ancora protagonisti.
Nel desiderio di approfondire e di stringere sempre più, nell’interesse reciproco, le relazioni tra i loro popoli nello spirito della solidarietà europea, nonché di consolidare i legami d’amicizia esistenti fra di loro, nello sforzo di realizzare un alto livello di occupazione della manodopera e un pieno sfruttamento delle possibilità di produzione, nella convinzione che questi sforzi servano l’interesse comune dei loro popoli e promuovano il loro progresso economico e sociale hanno concluso il seguente Accordo.
La Germania federale, tra il 1955 ed il 1968, avrebbe firmato otto accordi bilaterali per il reclutamento di manodopera straniera, il primo appunto con l'Italia.

L’Italia aveva firmato nel 1946 gli accordi bilaterali con il Belgio e la Francia, un anno dopo con la Gran Bretagna, la Cecoslovacchia, la Svezia, l’Argentina; nel 1948 furono firmati gli accordi con il Lussemburgo, la Svizzera, l’Olanda, nel 1950 con il Brasile; nel 1951 con la Sarre (Saarland) e l’Australia; nel 1952 con l’Ungheria e infine nel 1955 con la Repubblica federale tedesca.

Ma andiamo con ordine.  I movimenti migratori interni all'Europa ci sono stati in passato e non furono regolati nel modo in cui si vorrebbe attualmente imporre il flusso di coloro che "fuggono dalla guerra, dalla miseria e dalla fame".

Come furono affrontati?

- Le naturali carenze di manodopera e di base demografica erano presenti in tutti gli stati d'Europa (morti, disabili al lavoro e deportati erano decine di milioni) e costituivano un problema per la ripartenza industriale, specie in attesa di poter ricostituire, con adeguati investimenti, gli impianti distrutti o, comunque, resi obsoleti dall'arresto delle attività economiche non strumentali all'apparato bellico. (Dapprima, va detto, furono utilizzati come lavoratori in stato di semi-schiavitù, i prigionieri tedeschi, ma questa fase, procedendo l'applicazione dei vari trattati di pace, finì entro il 1947-46);
- Stati come il Belgio e la Germania, ed in misura minore la Francia, risolsero il problema stipulando trattati bilaterali con gli Stati e specialmente con l'Italia, sui cui gravava un'incompiuta (particolarmente in termini di efficienza) base agricola e un'insufficiente base industriale, così da assorbire l'eccesso di manodopera determinato dal simultaneo ritorno dei vari combattenti e dalla carenza di investimenti praticabili (in attesa della riforma agraria rimasta incompiuta nella sua dimensione programmatica "a tappe" che era stata elaborata dalla Commissione economica per la Costituzione della ripresa industriale;
- I trattati bilaterali prevedevano una selezione della manodopera potenzialmente ammissibile alla emigrazione operata, sulla base di procedure di richiesta dello Stato "ricevente", dagli stessi uffici competenti dello Stato di origine. Il modulo fu quasi subito piegato alle esigenze della parte economicamente più forte, ad esempio si volevano essenzialmente lavoratori italiani provenienti dalle aree già industrializzate e che non fossero comunque stati coinvolti in rivolte contadine e "occupazioni" delle terre: nei centri di raccolta (sotterranei della stazione di Milano o di Verona, non molto dissimili da lager) in territorio italiano, i funzionari belgi e tedeschi riselezionavano i cittadini italiani considerati più adatti e meno politicamente compromessi col "comunismo";
- Nel paese di destinazione, i lavoratori italiani venivano trasportati, dai treni-merce su cui avevano viaggiato, in appositi carri-bestiame, a baraccopoli per essere allogiati. Generalmente si trattava degli stessi campi di prigionia usati dai tedeschi o dagli alleati durante il conflitto.
Qui avveniva un'ulteriore selezione, dove i politicamente sgraditi e quelli fisicamente e psicologicamente inadatti al lavoro, in miniera, o nel facchinaggio più pesante, erano individuati sbrigativamente e rimpatriati;
- Dopo alcuni anni di applicazione di questi trattati, l'indirizzo di selezione mutò, perché ci si accorse che i meridionali italiani, essendo privi di alternative e più disperati, erano meno portati all'abbandono e al rimpatrio di quelli del Nord, che spesso venivano richiamati in patria dai parenti che, avevano constatato la ripresa economica e dell'occupazione nelle aree industriali italiane, e dove le condizioni di lavoro erano meno disumane di quelle imposte da belgi o tedeschi;
- Al tempo stesso, i meridionali italiani, una volta stabilizzati, e quindi ritenuti affidabili e "produttivi" divennero "preferibili", e venivano incentivati a richiamare anche i parenti  (naturalmente a livelli retributivi, e di condizione abitativa, più bassi di quelli che qualsiasi autoctono avrebbe mai accettato); una soluzione che consentì ai paesi "riceventi" di evitare la straniazione e la potenziale destabilizzazione sociale legata alla presenza degli immigrati, li rifornì di un ulteriore stabile flusso di manodopera a bassa retribuzione, che veniva socialmente emarginata e rinchiusa in enclaves chiuse nella memoria e nella nostalgia della terra di provenienza (dunque, l'assimilazione fu convenientemente molto lenta e completata dalla discriminazione selettiva nell'accesso ai livelli superiori di istruzione dei figli dei nostri emigrati: fenomeno, che dato il sistema istituzionale scolastico tedesco, è sostanzialmente ancora in atto).

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A servizio del Reich

Ma il grande flusso migratorio di lavoratori italiani verso il Reich è negli anni 1937-1943 ha origine nelle necessità legate allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e ai suoi preparativi, che portarono la Germania ad aver necessità di forza lavoro per sopperire a svariate esigenze in ogni comparto produttivo: dall’agricoltura all’industria, dalle imprese edili alle miniere di carbone.
 
I contesti

- Dal 1937 la Germania era in piena ripresa economica ed era riuscita a superare la pesante crisi iniziata negli ultimi anni del secondo decennio del Novecento (quella imputata alla Repubblica di Weimar) e che aveva causato un alto tasso di disoccupazione. Crisi sociale ed economica originata dalla disoccupazione, che colpì la popolazione tedesca nei primi anni del terzo decennio del Novecento ed uno dei fattori che contribuirono alla conquista del potere politico da parte del nazionalsocialismo e del suo leader, Hitler. Nel giro di pochissimi anni la situazione si era completamente capovolta e la nazione tedesca era riuscita a raggiungere, non con pochi sforzi, uno stato di piena occupazione.

- L’Italia affrontava il problema opposto: regioni rurali del Triveneto e nel Meridione, erano in una condizione di preoccupante declino economico, con l'aggravate di una popolazione abbondante e scarsamente occupata. Le migrazioni verso la Germania divennero fondamentali allo stato italiano sia come paliativo per rimediare alla fallimentare politica economica attuata dal regime fascista durante gli tutti gli anni Trenta, ma anche e soprattutto per “trarre gli indubbi benefici che le rimesse degli emigrati costituiscono per la bilancia dei pagamenti italiana”.

Durante i mesi estivi del 1942, la rivista del Partito comunista d’Italia Stato operaio evidenziava come tale flusso migratorio verso il Reich non fosse stato determinato solo “dalla necessità, da parte della Germania hitleriana, di disporre di centinaia di migliaia di lavoratori non tedeschi da impiegare nelle campagne e nelle officine del Reich in sostituzione dei lavoratori tedeschi chiamati alle armi” (Berti 1942, 135), ma anche l’alto tasso di disoccupazione in Italia e il bisogno di valuta tedesca erano tra le maggiori motivazioni che stavano alla base dello scambio lavoratori-materie prime: una condizione resa obbligatoria dalle disastrose condizioni in cui vessava l’agricoltura fascista e che obbligavano il popolo italiano a dure privazioni alimentari.

Nel 1942 il lavoro coatto di una moltitudine di stranieri divenne indispensabile al mantenimento dell’economia di guerra. Il 21 marzo Hitler nominò Fritz Sauckel con il titolo di plenipotenziario generale per l’impiego della manodopera (Generalbevollmächtigter für den Arbeitseinsatz, GBA).

Dapprima lo scambio di lavoratori tra la nazione tedesca e quella italiana si ebbero col Protocollo segreto sui rapporti economici italo-tedeschi sottoscritto a Monaco il 14 maggio 1937 da Amedeo Giannini, sottosegretario presso il Ministero degli Esteri, e Otto Sarnow, alto funzionario del Ministero dell’Economia del Reich. A partire dalle intese economiche sottoscritte col Protocollo segreto e con l’avvicinarsi dei venti di guerra, il Regno d’Italia lega la sua economia a quella tedesca e ne diviene sempre più dipendente per la fornitura di beni di produzione, di macchine utensili, di armamenti vari e di materie prime – soprattutto oli combustibili e carbone –, per diventare totalmente assoggettato al ben più forte alleato allo scoppio del conflitto.

Ma la volontà da parte del governo italiano di sottostare alle disposizioni tedesche si deve ricercare anche all’interno del ruolo militare e politico ricoperto dall’Italia all’interno dell’Asse e alla scelta di entrare in guerra in seguito alle vittorie schiaccianti riportate dai tedeschi su più fronti. Le autorità romane, all’alba del 10 giugno 1940, si trovarono infatti costrette a richiedere all’alleato tedesco un aumento di rifornimenti per poter entrare nel conflitto mondiale.

A guerra iniziata, le difficoltà economiche e politiche che il fascismo dovette affrontare furono incrementate, come emerge dall’analisi di un dettagliato elenco di “materiali indispensabili per consentire alle industrie di lavorare col ritmo attuale ridotto rispetto alle possibilità produttive” trasmesso a Mussolini nel dicembre 1940 dal generale Carlo Favagrossa, capo del sottosegretariato alle Fabbricazioni di Guerra, che metteva in luce le difficoltà sofferte dalla macchina industriale italiana.

rei1092Fu così che circa cinquecentomila lavoratori italiani fra l’inizio del 1938 e la prima metà del 1943 emigrarono in Germania

In Germania non giungevano lavoratori italiani solamente dalla madrepatria, ma anche dagli stati europei conquistati durante l’avanzata nazista.

Dal Belgio, ad esempio, “gran parte della colonia italiana (…) [finì con l’] andare a lavorare in Germania” già nell’immediato post-occupazione tedesca (10-28 maggio 1940). La conquista del Belgio da parte dei nazionalsocialisti causò un’emigrazione di massa dei lavoratori: tale emigrazione fu principalmente una conseguenza dell’alto tasso di disoccupazione venutosi a creare nel paese e di certo, come sostiene Anne Morelli, non venne bloccata da precetti morali:

questi uomini, abituati ad “affittare” le loro braccia di miniera in miniera, a laboratori, a fabbriche, sempre al migliore offerente, non trovavano nulla di “immorale” ad andare in Germania, tanto più che sapevano bene che anche le industrie belghe rifornivano lo schieramento nazista. (p. 261)

E comunque, nelle colonie italiane presenti in tutti i paesi europei invasi dalla Wehrmacht, in particolar modo Francia e Belgio, per molti antifascisti andare a lavorare in Germania era sicuramente più sicuro che ritornare in patria o rimanere in un paese occupato, dove le possibilità di essere catturati dalla polizia italiana, alleata della Gestapo, era certamente maggiore.

 «In Germania si vive male»

 L’afflusso migratorio venutosi a creare con le stipulazioni politico-economiche dell’Asse Roma-Berlino mostra, a partire dal 1942 un progressivo incremento di soprusi da parte delle autorità tedesche nei confronti dei lavoratori italiani. Gli accordi iniziali erano incentrati sull’assunzione, l’arruolamento, il collocamento e l’“impiego di lavoratori agricoli stagionali italiani”.

Gli accordi presi nel febbraio del 1941 riguardanti lo scambio tra forza-lavoro italiana e materie prime tedesche, avvennero in un periodo nel quale, come ricorda Cesare Bermani, “già da tempo si era entrati in una fase di passaggio da una situazione di migrazione percepita come largamente conveniente a una situazione di cui si riconoscevano ormai anche i suoi notevolissimi svantaggi” (p. 82). Inoltre, Corni (2009) aggiunge che le notizie “inviate dai primi lavoratori che si erano recati magari volontariamente, con tante speranze, a lavorare in Germania (…), segnalarono che le condizioni di vita e di lavoro erano molto peggiori rispetto a quanto annunciato con i proclami e nella propaganda” (p. 150): come effetto immediato diminuì rapidamente il flusso dei lavoratori verso il Reich, tanto che i dirigenti di Berlino furono costretti ad attuare azioni coercitive per stabilizzare la circolazione di lavoratori italiani verso la Germania.

A partire dal settembre 1939 intervengono le testimonianze di molti lavoratori che accusano un istantaneo aumento del “razzismo popolare” nei loro confronti a partire dal settembre 1939.

Con lo scoppio del conflitto e con la decisione del governo italiano di non scendere immediatamente in guerra al fianco della Germania, decisione che fece ritornare a galla stereotipi antitaliani e vecchie ferite mai cicatrizzate relative alla prima guerra mondiale. A questo proposito alcuni lavoratori di Rovereto rientrati in Italia nell’ottobre 1939 raccontano di essere stati “sempre trattati bene durante la loro permanenza, ma che dopo la fine di settembre notarono nel trattamento una certa freddezza e qualcuno più esaltato dei datori di lavoro non tralasciava di rimproverare l’atteggiamento del nostro Governo, che ripete l'atteggiamento assunto nel 1914, rimanendo prima neutrale e poi abbracciando la causa dei franco-inglesi”.

Attorno ai lavoratori italiani si era creata e d andava consolidandosi un’atmosfera di insofferenza e di disprezzo. Le autorità tedesche, oltre a non rispettare più le clausole contrattuali (specie quelle relative alle ferie in Italia) e ad aggirarle con cambi artificiosi di categoria e conteggi non esatti di cottimi, avevano vietato alle donne di avere anche con loro, così come con gli altri stranieri, qualsiasi contatto (…) e avevano preso ad adottare duri provvedimenti nei confronti di chi commetteva atti di indisciplina e “reati” anche minimi, come schiamazzi e ritardi nel rientrare nei campi, a curare sempre meno la manutenzione e le condizioni di vita nei campi stessi (…) e a esercitare un’azione di intimidazione e di corruzione nei confronti dei rappresentanti sindacali italiani. (De Felice 1990, 578)

Gran parte dei lavoratori giunti nel Reich con regolari contratti si erano accorti, col passare dei mesi, “che le condizioni di vita e di lavoro e il trattamento loro riservato in Germania erano ben lontani dalle clausole stipulate” (Corni 2009, 143).

Nonostante le autorità italiane avessero cercato di impedire che i lavoratori non mantenessero gli impegni lavorativi presi con le aziende tedesche, ben presto si generò, tra i lavoratori italiani, un clima di malcontento e di insofferenza. Questi sentimenti si tradussero in grandi proteste, incidenti e risse con i tedeschi, che la polizia tentava di reprimere con durezza. In Italia iniziò a girare voce che “le condizioni di vita degli operai in Germania, specialmente degli italiani, [erano] «da galera»”, e le donne rimaste iniziarono a chiedersi con apprensione se fosse vero “che gli operai italiani in Germania [erano] trattati «peggio dei prigionieri di guerra»”. L’eco di questi eventi giunse velocemente in Italia14 e il 7 giugno 1941 Mussolini, come abbiamo ricordato in precedenza, dichiarò al Consiglio dei ministri di essere intenzionato a sospendere l’invio in Germania di altri lavoratori, sia per il trattamento riservato loro dai tedeschi, sia per la necessità di manodopera in cui vessava l’Italia in quel delicato periodo, ma anche perché, affermò, “non voglio che nasca e si radichi la leggenda che vi sono popoli eletti destinati a portare le armi e altri capaci soltanto di accudire al lavoro, una specie di sottopopoli e di schiavi” (Gorla 1959, 200).

Un capitolo importante nella vicenda dei soprusi avenuti nel Reich nei confronti dei lavoratori italiani è quello relativo ai minatori.

In questo caso le condizioni si aggravarono col passare dei mesi e assunsero aspetti disdicevoli soprattutto a partire dal 1942.
Durante un colloquio tenutosi il 28 gennaio di quell’anno a Palazzo Venezia fra Mussolini ed Hermann Göring si giunse ad un accordo di vero e proprio scambio diretto tra carbone tedesco e manodopera italiana. Mantelli (1992) ha studiato ampiamente il tema del rapporto “manodopera italiana-carbone tedesco” e, comparando “fra loro i valori raggiunti mensilmente dalle rimesse dei lavoratori italiani in Germania con quelli raggiunti dalle spedizioni di carbone tedesco in Italia”, è giunto alla conclusione che “dal luglio 1941 al marzo 1943 compreso, le rimesse degli italiani superino abbondantemente in valore il carbone tedesco, più volte addirittura del doppio” (p. 65). La tesi avanzata da Mantelli (1992, pp. 287-340) per spiegare la differenza rilevata tra i dati concernenti lo scambio “braccia-carbone” messi a confronto è incentrata sulle fluttuazioni del clearing italo-germanico: secondo la sua teoria gli alti e bassi riscontrati i nel periodo preso in esame mettono in evidenza il mutare degli equilibri fra i due stati.

Alla fine dell’agosto dello stesso anno, la Bergwerksverwaltung Kleinrosseln GmbH, un’azienda mineraria dipendente dalla HGW, lamenta in un rapporto che gli italiani protestano continuamente per il cibo, giudicato “cattivo ed insufficiente” e sono spaventati dai bombardamenti aerei inglesi. Il problema delle incurioni aeree degli Alleati mise in luce chiaramente il sentimento dei tedeschi nei confronti dei lavoratori italiani: essi erano considerati degli individui di cui la Germania aveva bisogno e che allo stesso tempo la maggioranza della popolazione disprezzava. Ricorda Mario Zunino, un impiegato presso la miniera di Saarbrücken, completamente rasa al suolo dagli aerei nemici, di aver rimosso ogni notte, durante i primi giorni di settembre, “un cartello che era affisso al di fuori di fuori di un ricovero antiaereo esistente presso la (…) miniera; cartello che portava la seguente esatta scritta in tedesco: ‘È proibito l’ingresso al ricovero degli stranieri (italiani e russi)’”

Poi venne l'8 settembre

In seguito all’8 settembre, gli italiani nel Reich dovettero subire, assieme ai pregiudizi ideologici ed etnici (Herbert 1985, 49-53) – molto importanti per le scelte, le valutazioni e gli impieghi di manodopera attuati dai tedeschi – anche pregiudizi di tipo politico. I civili, ma soprattutto i militari italiani catturati, furono collocati in una categoria giuridica, diciamo così, del tutto peculiare: furono catalogati non come prigionieri di guerra ma come internati militari, e ciò legittimò le autorità nazionalsocialiste a trattare gli italiani nel peggiore dei modi. Improvvisamente, sia i lavoratori civili italiani che i prigionieri di guerra catturati successivamente all’armistizio dell’8 settembre ’43 vennero collocati al livello più basso della gerarchia razziale, ed il trattamento nei loro confronti fu intriso di violenza e di pregiudizio. (Corni 2009, 147)

Non solo, per mantenere il controllo sulle decine di migliaia di lavoratori impiegati nelle varie realtà lavorative del Terzo Reich in quel delicato momento storico le autorità tedesche scelsero di usare la pratica del terrore.

Le testimonianze dei lavoratori raccolte da Antonio Gibelli e da Cesare Bermani confermano un brusco peggioramento delle condizioni dopo l’8 settembre. Tuttavia, dal loro studio emerge anche che i lavoratori non godettero mai, nemmeno prima di quella data, delle condizioni privilegiate derivanti dal loro status di alleati. Molti dei fremdarbeiter italiani sostennero di essere sempre stati trattati dai tedeschi allo stesso modo (a volte anche peggio) dei prigionieri di guerra. Gibelli afferma che il lavoro in Germania aveva assunto “le caratteristiche di lavoro forzato soggetto a disciplina militare prima ancora che la Germania da paese alleato divenisse potenza nemica” (Gibelli 1970, 115-33). 

A rendere l’8 settembre una data periodizzante e il periodo successivo decisamente drammatico per i fremdarbeiter italiani fu la sistematica e impunita opera di rastrellamento e di internamento. Da quando le due nazioni erano divenute antagoniste, gli italiani nel Reich non avevano più alcuna possibilità di appellarsi all’aiuto dello stato italiano e questo li lasciava alla mercé della morsa nazista. Ai lavoratori rimasti nel Reich dopo l’8 settembre e ai circa 650.000 Internati Militari Italiani (IMI), si devono aggiungere gli 82.517 (secondo altre fonti 88.644) civili rastrellati o assunti rispettando più o meno la volontà degli interessati e gli italiani residenti nei territori dell’Europa occidentale – Francia, Belgio e Lussemburgo – caduti sotto la forca del Reich. 

 

Immigrazione italiana in Belgio

 Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, i belgi non vogliono più riprendere la via delle miniere di carbone. Ma, questo settore industriale, conservato durante la guerra, ha urgente bisogno di manodopera per rilanciare l’economia belga e se i belgi non vogliono scendere nella miniera, bisogna guardare altrove. Il Primo Ministro di allora, Achille Van Acker, mette a punto un piano per fornire energia a basso costo alle industrie belghe e si lancia in una vera e propria “battaglia del carbone”.

213 2836Il Belgio fa appello all’Italia per trovare minatori che assicurino l’estrazione del carbone. Gli italiani sono stati sconfitti dalle forze alleate e la situazione economica in questo Paese è disastrosa. Il 20 Giugno 1946 viene raggiunto un accordo. Il protocollo stabilisce che, per ogni lavoratore italiano che scenderà nelle miniere in Belgio, 200 chili di carbone al giorno saranno consegnati all’Italia.

L’articolo 11 del protocollo del 1946 prevedeva che: “Il governo italiano inviasse in Belgio 2.000 lavoratori a settimana.”

In sei mesi, il contratto sarebbe stato attuato.

Gli italiani desiderosi di esseri ingaggiati in Belgio non possono avere più di 35 anni. È il consolato belga a Roma che compone le liste.

Sono soprattutto comunisti quelli che le autorità locali sono felici di veder partire! Di fatti, la maggioranza degli italiani che arrivavano in Belgio erano antifascisti.

Gli italiani selezionati si presentano alla stazione di Milano per sottoporsi a una visita medica. Il rigore della visita è giustificato dalla durezza fisica del lavoro. Poi, firmano il loro contratto: viene promesso loro un alloggio decente, cibo in linea con le loro abitudini alimentari, gli stessi vantaggi e le stesse retribuzioni dei lavoratori belgi e gli assegni familiari per i figli.

Per promuovere il lavoro nelle miniere, la Federazione belga del carbone aveva creato un poster rosa, che elencava i benefici dei minatori in Belgio e il livello dei salari. Presto il Belgio diventa il paese della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) con il maggior numero di lavoratori stranieri.

La dura realtà dietro le illusioni

Da tutta Italia affluiscono masse di contadini, poco istruiti o del tutto analfabeti. Vengono ammassati per giorni negli spazi ristretti del seminterrato della stazione di Milano, attendendo la partenza del prossimo convoglio.
Se gli italiani sapevano che stavano firmando per diventare minatori, nella realtà ignoravano cosa volesse dire. Erano stati attratti dai manifesti rosa che vantano i benefici, ma sulla natura del lavoro nemmeno una parola. Ovviamente, nessun riferimento alla silicosi, questa terribile malattia dovuta alla polvere di carbone!
 
Dal momento in cui salgano sul treno per il Belgio, gli italiani fanno i conti con una delusione brutale: sono accompagnati da gendarmi e uomini della Polizia di Stato in abiti civili. Dopo un lungo viaggio estenuante, arrivano in diverse stazioni della Vallonia. Nella regione di Liegi, scendono dal treno e sono classificati in base al numero della miniera. Poi, un camion li conduce a destinazione.
Scendono immediatamente nel fondo, senza alcun periodo di adattamento. I minatori italiani sono spesso ex contadini divenuti operai, e senza nessuna esperienza scoprono condizioni di lavoro molto dure. Il loro contratto era preciso: 5 anni di miniera prima di poter fare “qualcosa di diverso”.
Quelli che non sono in grado di sopportare questo lavoro sono considerati “violatori” del contratto, vengono arrestati e messi in carcere in attesa della loro rispedizione in Italia.

213 2842Gli alloggi proposti agli italiani sono la loro più grande delusione. Vengono alloggiati in campi costruiti dai nazisti per i prigionieri russi, costretti nel corso della prigionia a lavorare in miniere situate vicino a mucchi di terra o in terreni abbandonati. Sono delle baracche precarie con tetti di lamiera, molto calde in estate e gelide d’inverno. Acqua e servizi igienici si trovano all’esterno e in inverno l’acqua è spesso congelata. I letti non sono che telai di legno sovrapposti, muniti di materassi di paglia e coperte sporche.

Molti italiani che hanno vissuto queste condizioni dolorose si considerano dei deportati economici, venduti dall’Italia per qualche sacco di carbone.
Questi emigranti vengono rifiutati dalla popolazione belga. Ci vorrà molto tempo prima che i matrimoni tra belgi e italiani siano possibili.

I minatori italiani arrivano in massa fino al 1956.

È solo in seguito a diversi incidenti che l’Italia sospende il loro invio verso il Belgio: per esempio, la tragedia della miniera a Seraing, ma soprattutto la più grande catastrofe della storia industriale belga, che si verifica l’8 agosto 1956 al Bois du Cazier a Marcinelle.
Il disastro apre gli occhi della popolazione belga, che si interessa per la prima volta ai minatori. L’emozione causata da questo incidente permetterà l’avvio dell’integrazione degli italiani, che hanno pagato un caro prezzo in termini di vite umane: sulle 262 vittime, 136 sono italiani. Questo evento segna la fine dell’estrazione del carbone. Nel 1959, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), creata nel 1951, dichiara la chiusura delle miniere di carbone belghe e il blocco degli accordi che legavano il Belgio e l’Italia.

Nella regione di Liegi più del 35% della popolazione è straniera. I comuni periferici contano fino all’86% degli italiani tra gli stranieri.

 

Immigrazione italiana nella Repubblica Federale Tedesca

 Il governo della Repubblica italiana e il governo della Repubblica federale tedesca firmarono, il 20 dicembre 1955, l’accordo bilaterale per il reclutamento e il collocamento di manodopera italiana nella Germania federale. Le trattative che condussero alla firma di tale accordo furono il frutto sia di esigenze nazionali, sia di istanze internazionali. Il flusso emigratorio che ne scaturì fu influenzato, a sua volta, dalla progressiva entrata in vigore della libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità economica europea, e dall’andamento economico registrato nelle nazioni coinvolte. La prima fase dell’emigrazione diretta verso la Germania federale fu definita “assistita” poiché pianificata a livello istituzionale e organizzata attraverso i Centri di emigrazione. La seconda fase dell’emigrazione fu caratterizzata della libera circolazione dei lavoratori e da forme di reclutamento indipendenti dalla mediazione dei Centri di emigrazione. I lavoratori italiani trovarono lavoro recandosi direttamente all’estero.

Le trattative che condussero alla firma dell’accordo bilaterale italo-tedesco si possono far risalire all’ottobre del 1953, quando il governo italiano chiese al governo tedesco di occupare lavoratori stagionali italiani a causa della diminuzione costante delle importazioni italiane da parte tedesca. La discussione sul saldo negativo dei pagamenti e sul reclutamento della manodopera caratterizzò i rapporti economici italo-tedeschi per tutto il 1954.

L’apice si raggiunse a luglio, quando l’Italia, davanti alla reticenza tedesca, minacciò di «tornare ad una politica commerciale restrittiva se gli altri stati non fossero stati disposti ad un’attuazione liberale dell’assunzione di manodopera».

Alla richiesta italiana, però, Bernhard Ehmke (dirigente del ministero federale del lavoro) rispose chiaramente che il bisogno di manodopera nella Repubblica federale tedesca poteva «ancora essere soddisfatto con quella locale» e rifiutava i «legami contrattuali» con l’Italia perché li riteneva prematuri.
Le forti interdipendenze esistenti tra l’Italia e la Germania federale erano il frutto della ricostruzione economica post-bellica che ponendo le esportazioni al centro della rinascita economica europea, si basava sulla liberalizzazione del commercio estero.

Il progetto di un’Europa economicamente integrata, progetto che, come afferma lo storico Charles Maier, era rimasto parzialmente irrealizzato, era stato il progetto degli Stati Uniti di Truman che, con il piano Marshall, aveva proposto alle nazioni europee un piano di crescita economica comune.

Gli Stati Uniti pensavano all’Europa come a una “regione”, dove ogni nazione avrebbe dovuto ricoprire ruoli funzionalmente interdipendenti dettati dalla propria storia e dalle proprie risorse.

Il compito degli Stati Uniti sarebbe stato quello di attivare un meccanismo «self help, adatto a rimettere in moto la spina al recupero di produttività». La crescita economica avrebbe garantito la stabilità politica e la pace sociale dell’Europa e sarebbe stata l’unico antidoto sia contro i partiti comunisti, forti soprattutto in Francia e in Italia, sia contro il pericolo sovietico.

Carlo Spagnolo sottolinea il valore principalmente politico assunto dagli aiuti economici americani affermando che «gli aiuti americani furono politicamente decisivi alla ricostruzione europea».

Gli Stati Uniti individuavano, nel recupero politico ed economico della Germania occidentale, la condizione necessaria e indispensabile per la rinascita economica europea, e contemporaneamente ne facevano il baluardo della loro politica di contenimento. Se da un lato, infatti, alla Germania federale con il suo carbone e con le sue capacità tecniche veniva riconosciuto il ruolo trainante per la ripresa economica del continente, dall’altro lo scivolamento della Germania occidentale nell’area comunista avrebbe potuto significare la perdita dell’Europa.

Nel 1948 gli Stati Uniti crearono l’Organizzazione europea di cooperazione economica (Oece) per ripartire gli aiuti del piano Marshall tra gli stati firmatari.

L’Oece ebbe un carattere prevalentemente tecnico e di coordinamento e non soprannazionale, come invece avrebbero voluto gli americani.

Nazioni come la Francia e la Gran Bretagna, infatti, vi si erano opposte per il timore di perdere la propria sovranità. Il principio della ricostruzione della Germania federale venne comunque riconosciuto da tutti gli stati firmatari a condizione che esso fosse controllato per evitare conseguenze dannose all’economia e alla finanza degli altri paesi. Da parte sua la Germania occidentale, con sovranità limitata fino al 1955 e soggetta a uno stazionamento di forze d’occupazione, si impegnava in una ricostruzione ed espansione industriale dichiarando esplicitamente il proprio «fervido desiderio di servire la causa europea».

Nel settembre del 1949 era nata la Repubblica federale tedesca e Konrad Adenauer, il suo primo Bundeskanzler, seppe leggere le opportunità politiche insite nell’idea di Europa e far riguadagnare alla Repubblica federale tedesca la pari dignità con gli altri paesi rendendola così idonea alla «collaborazione all’interno degli organismi europei».

L’Italia nel 1949 aderì all’Oece e intraprese la strada della liberalizzazione progressiva della sua economia.

Per l’Italia, infatti, povera di materie prime, lo sviluppo industriale significava, prima di tutto lo sviluppo delle importazioni. Uno sviluppo delle importazioni avrebbe comportato una pari crescita delle esportazioni e avrebbe necessitato di un clima di aperture commerciali. L’Italia nel 1954 aprì, quindi, il proprio mercato alle importazioni dai paesi Oece abolendone fino al 99% le limitazioni quantitative.

Per giocare un ruolo nell’intreccio di collaborazioni internazionali, l’Italia aveva puntato sulla stabilità monetaria pagando, però, il costo di «povertà e vulnerabilità interna». Lo sviluppo di un’industria competitiva sul piano internazionale, localizzato principalmente nel triangolo industriale di Milano, Torino e Genova e orientato verso l’aumento della produttività e dell’esportazione lasciava, infatti, irrisolto il problema del riassorbimento della disoccupazione. La domanda proveniente dai paesi europei più industrializzati, infatti, si orientava verso i consumi di massa e di lusso e quindi solo verso specifici settori della produzione italiana come l’industria automobilistica, i prodotti petroliferi, alcuni prodotti tessili, le calzature e la gomma.

Secondo Graziani, furono proprio le esportazioni a mettere in moto un «circolo vizioso di squilibri e di disuguaglianze», prime fra tutte le emigrazioni esterne e interne e il sottosviluppo del mezzogiorno.

L’Italia di Alcide De Gasperi affrontò il problema della disoccupazione aprendo strade istituzionali all’emigrazione stessa a cui neanche il Sindacato unitario dei lavoratori, «trincerandosi dietro la dura necessità del momento», si era realmente opposto.
De Gasperi intendeva trovare sbocchi occupazionali per la manodopera italiana nelle nazioni aderenti all’Oece «in un’ottica di scambi di concessioni commerciali reciproche».
Se da un lato gli emigranti avrebbero contribuito a sanare il bilancio statale, dall’altro l’emigrazione indeboliva i contrasti sociali interni permettendo il consolidamento politico della Democrazia cristiana. Che l’emigrazione fosse una voce fondamentale nel capitolo della bilancia dei pagamenti con l’estero, lo dimostra il primo piano per lo sviluppo dell’economia presentato dall’Italia all’Oece per il quadriennio 1948-49/1952-53 dove venne prevista un’emigrazione netta di 823.000 unità, di cui 364.000 dirette verso l’Europa e 468.000 dirette verso gli altri continenti; tutto ciò avrebbe prodotto, in rimesse, una quota di 205 milioni di dollari, pari al 10% delle importazioni.
Al temine dello stesso periodo, però, ci si aspettava di registrare ancora 1.188.000 disoccupati, ai quali si sarebbero dovuti aggiungere, secondo la Direzione per l’emigrazione del ministero degli esteri, altri due milioni di sottoccupati.

La Germania di Adenauer, invece, per garantire la stabilità sociale e politica interna si era prefissata l’obiettivo della piena occupazione.

D’altronde, come osserva Christoph Buchheim, fu proprio «l’impiego della forza lavoro […] di milioni di disoccupati e sottoccupati, tra cui molti profughi e rifugiati», a essere il motore della crescita economica. Non c’era da stupirsi se, ancora all’inizio del 1954, il Ministro del lavoro e i sindacati tedeschi si opponessero alle trattative con l’Italia per il collocamento di lavoratori italiani nella Repubblica Federale Tedesca, richiamando l’attenzione sugli alti tassi di disoccupazione esistenti nel settore agricolo.
D’altra parte, però, l’Italia era un’importantissima importatrice di carbone e i maggiori introiti delle esportazioni tedesche erano fatturati nel commercio di prodotti dell’industria meccanica, metallurgica e chimica, proprio con l’Italia.
Così, all’inizio del 1955, la Germania federale propose all’Italia un accordo “preventivo” sul reclutamento e il collocamento dei lavoratori italiani, un accordo che sarebbe entrato in vigore solo nel caso in cui la Germania federale ne avesse avuto bisogno, e cioè solo quando la disoccupazione tedesca fosse stata completamente riassorbita.

All’inizio dello stesso anno, l’Italia aveva presentato all’Oece il piano Vanoni in cui per il decennio successivo si prevedeva un’emigrazione di 800.000 lavoratori, ritenuta indispensabile per garantire la crescita economica e riequilibrare il grave divario esistente tra nord e sud.

Nel settembre 1955 la disoccupazione tedesca toccò il 2,7% e a novembre il ministero del lavoro tedesco stimò a 800.000 il «bisogno aggiuntivo di manodopera per il 1956».
La firma dell’accordo italo-tedesco divenne imminente e fu firmato a Roma, il 20 dicembre dello stesso anno, dal ministro del lavoro Anton Storch, dal ministro degli esteri Clemens von Brentano e, da parte italiana, dal ministro degli esteri Gaetano Martino. I problemi lasciati fino a quel momento sospesi riguardanti le questioni sul sussidio di disoccupazione per i lavoratori stagionali e il pagamento degli assegni familiari, furono così risolti:
«Il sussidio di disoccupazione non sarebbe stato trasferito in Italia, ma la Repubblica federale tedesca si impegnava a pagare gli assegni familiari anche alle famiglie che rimanevano in Italia».

 

 

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Mai riuscito a rispondere compiutamente alle uniche importanti domande della vita: “quanto costa?”, “quanto ci guadagno?”. Quindi “so e non so perché lo faccio …” ma lo devo fare perché sono curioso. Assecondami.

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