Sospinti da movimenti di massa da ragioni economiche da contrasti religiosi

Popoli in movimento, fenomeni migratori urbanesimo, nomadismo, conflittualità religiosa, e soprattutto guerre. Il mondo così come lo conosciamo è il risultato di un secolare interscambio di popoli. Non sempre pacifico, si pensi al continente americano nel quale l’irruzione europea, e più tardi l’importazione di milioni di schiavi, hanno travolto le comunità precolombiane creando società nuove.

migrants germanyÈ l’interfaccia fra miseria e ricchezza, fra sottosviluppo e opulenza, fra aree di crisi e paesi pacifici, fra insicurezza e prospettive di vita, fra demografia galoppante e regresso delle nascite.
Il fenomeno delle migrazioni, che da qualche tempo è balzato alla ribalta delle cronache e certamente vi resterà a lungo, attraversa l’intera storia umana.

Si migra fin dai tempi più antichi, fin da quando il rapporto fra comunità relativamente ridotte e immensi spazi geografici invitava a percorrere il mondo, a cercarvi il luogo ideale per la vita, la prosperità e il progresso. A volte un impulso religioso imponeva d’inseguire una meta indicata dalla fede; verso la terra promessa muovevano popoli interi che proprio sull’esodo costruivano la loro cultura e il loro destino.

Altre volte la migrazione nasceva dall’espulsione di comunità considerate ostili, e quindi protese alla ricerca di approdi sicuri.

Il mondo così come lo conosciamo è il risultato di un secolare interscambio di popoli.

migranti 8Non sempre pacifico, si pensi al continente americano nel quale l’irruzione europea, e più tardi l’importazione di milioni di schiavi, hanno travolto le comunità precolombiane creando società nuove.

Checché se ne dica le migrazioni di oggi non sono altro che la ricerca, purtroppo caotica e incontrollata, di migliori condizioni di vita, di sicurezza, di libertà.
Di fronte a questa realtà la pretesa di chiudere le frontiere, di negare ad altri più favorevoli condizioni di vita, di concentrarsi sulla difesa passiva della propria compattezza etnica, culturale, religiosa, appare in tutta la sua goffaggine. L’articolazione politica del mondo non è che un sistema di vasi comunicanti, e non ci vuole molto a capire quale sia la direzione inevitabile del flusso. Che si deve governare ma che certo non si può impedire.

I movimenti di massa presentano varie modalità.

Fra quelle classiche è il nomadismo: allevatori che usano il terreno per le loro mandrie e una volta esaurite le risorse vegetali si spostano alla ricerca di nuovi pascoli. Inevitabile il contrasto con i coltivatori stanziali, che praticano lo sfruttamento stagionale del suolo e dunque si radicano nel territorio e costruendo dimore permanenti inventano il villaggio, embrione della cultura urbana. È stato il primo scontro di civiltà: guerre cruente nacquero dal cortocircuito fra due modi opposti d’intendere il rapporto con la terra. Che sono sopravvissuti fin quasi ai nostri giorni, si pensi alle fence cutting wars negli Stati Uniti durante la corsa all’Ovest, le accese dispute nate dal taglio delle recinzioni che dividevano i terreni destinati al bestiame da quelli coltivati. O a certe lotte africane degenerate fino al genocidio, come quella che oppose nel Ruanda i gruppi tribali hutu, di tradizione contadina, agli allevatori tutsi.

Altro storico movimento è l’urbanesimo, il grande travaso degli abitatori delle campagne verso le città, più sicure e più ricche di opportunità. Le città che garantendo protezione e accumulando risorse, sapere e potere proiettano l’umanità verso l’età moderna. È proprio dalla città, centro di scambi e contatti, che la percezione della vastità e varietà del mondo apre scenari nuovi e rivela nuove mete. L’orizzonte si è ampliato e le migrazioni non si dirigono più verso spazi vuoti ma prendono di mira paesi popolati, e così il fenomeno diventa critico dovendo fare i conti con le più disparate reazioni verso i nuovi arrivati. A volte si migra armi in pugno e l’accoglienza non è fra le più tenere, anche se spesso si fanno strada, accanto alla difesa armata, tentativi di cooptazione per assorbire il fenomeno e se possibile trarne vantaggio. È il caso delle invasioni barbariche che tendono a integrarsi, portandovi energie nuove, nelle cadenti strutture dell’impero romano.

Nel diciannovesimo secolo e nei primi decenni del ventesimo un grandioso fenomeno sconvolge l’assetto di due continenti.

Afflitta da una popolazione crescente e da ricorrenti crisi di produzione agricola l’Europa si riversa nelle Americhe. In una prima fase sono la Germania e i paesi del nord e dell’est ad alimentare la migrazione. In particolare si punta sugli Stati Uniti, dove spazi sconfinati si offrono alla penetrazione verso Ovest, motivata da circostanze che vanno dalla crescente offerta di lavoro legata all’industrializzazione fino alla corsa all’oro in California e Alaska.
A metà Ottocento una micidiale carestia riempie l’America di immigrati irlandesi altrimenti ridotti alla fame.
Più tardi è l’Europa meridionale, particolarmente l’Italia, ad alimentare un costante flusso migratorio verso l’America.
Fra il 1910 e la grande guerra la media annua degli arrivi negli Stati Uniti supera il milione di persone, non soltanto provenienti dall’Europa ma anche dall’Asia. Il flusso riprende col dopoguerra fino agli anni Venti, quando viene ridimensionato da politiche restrittive.

Ma ormai gli Stati Uniti hanno cambiato faccia, così come l’avevano cambiata nell’era coloniale, quando i primi europei si riversarono negli spazi in cui vivevano di caccia le tribù autoctone.

Fu un esempio di colonialismo in senso stretto, volto a trasferire nei territori conquistati parte delle popolazioni conquistatrici. Il fenomeno coloniale è fra i grandi eventi formativi del mondo di oggi.

Dietro il paravento della civilizzazione, e persino dell’evangelizzazione, si cercò di risolvere problemi di natura demografica ed economica, legati all’insoddisfacente rapporto fra tassi di natalità e indici dello sviluppo.
Nel sentire comune non c’erano obiezioni. In Italia il poeta Giovanni Pascoli celebrò con un famoso discorso («La grande proletaria si è mossa!») la guerra contro l’impero ottomano per la conquista della Libia.
Pascoli, che pure aveva una profonda sensibilità sociale, dava voce alle motivazioni del governo di Giovanni Giolitti, che indicava nella «quarta sponda» una valvola di sfogo per l’esuberante demografia, da indirizzarsi non più verso paesi stranieri e talvolta ostili, ma verso territori sotto controllo. In realtà l’auspicato ripopolamento delle colonie, con la sola eccezione della Libia, fu tutto sommato marginale.

Questo approccio si differenziò nettamente dalla prima fase del colonialismo italiano, dominata dalla figura di Francesco Crispi e naufragata nella disfatta di Adua, che puntava al prestigio nazionale, e dalla terza fase, quella mussoliniana, che avrà carattere tipicamente imperialista.

Carattere comune alle esperienze di altri paesi a cominciare dalle massime potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia. Concentrato su politiche di prestigio e sul dominio delle materie prime, l’imperialismo britannico e quello francese ebbero anche esperienze propriamente colonizzatrici con significativi trasferimenti umani: il primo in America e in Oceania, il secondo in alcuni paesi africani e soprattutto in Algeria.
Con sviluppi nettamente diversi: mentre la decolonizzazione algerina fu determinata dalla rivolta delle genti autoctone, quella che diede vita agli Stati Uniti fu voluta proprio dai discendenti dei colonizzatori.
Dunque soltanto la prima provocò un massiccio movimento migratorio: quasi un milione di pieds-noirs costretti a lasciare il Paese. Paradossalmente altrettanti algerini muoveranno alla ricerca di lavoro in Francia.
Anche i possedimenti spagnoli dell’America Latina avevano ricevuto forti afflussi dalla madrepatria, e anche qui saranno proprio i creoli, discendenti dei colonizzatori, a conquistare l’indipendenza.

Fra gli inneschi dei movimenti di massa le ragioni economiche e i contrasti religiosi.

Le prime hanno determinato consistenti migrazioni interne in Europa, dove l’industrializzazione aveva rivelato forti scompensi nella reperibilità di manodopera. Di qui i flussi dai paesi del Sud, con destinazioni principali la Germania, la Francia, il Belgio, la Svizzera.

Fu invece una motivazione religiosa a produrre nel subcontinente indiano, a partire dal momento dell’indipendenza che lo divideva sulla base della fede, un drammatico scambio di popolazioni.
Nel timore di essere perseguitati come minoranza, circa cinque milioni di musulmani lasciarono l’India diretti verso il Pakistan, che all’epoca comprendeva anche il futuro Bangladesh, mentre altrettanti indù compivano il pellegrinaggio inverso.
Furono odissee contrassegnate da abusi e atrocità con un bilancio di almeno due milioni di vittime: senza contare il lascito permanente di una reciproca ostilità che porterà i due paesi ripetutamente alla guerra.

 

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Alfredo Venturi
É nato a Bologna, vive in Toscana. Laurea in Scienze politiche. Giornalista (il Resto del Carlino, La Stampa, Corriere della Sera) attivo in Italia e all'estero. Ha trascorso in Germania il decennio che comprende la riunificazione. Editorialista del settimanale Azione di Lugano. É autore di numerosi saggi di ricerca e divulgazione storica.
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