La partita che si gioca nei Caraibi

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Gli Stati Uniti sono di fronte alle coste del Venezuela con due obiettivi: uno immediato e un altro in prospettiva. Quello immediato è la caduta del governo di Nicolas Maduro; quello più ampio vorrebbe la fine dell’ALBA-TCP ovvero Cuba e Nicaragua.

venezuela333E’ ufficiale il passaggio della Bolivia alla destra e con esso, quasi certamente, del suo litio a disposizione della ricchezza nazionale. Dopo l’Ecuador, divenuto un protettorato USA su base criminale, che ha consegnato la sua significativa quota di petrolio agli USA, sembra ridisegnarsi un quadro favorevole per la sete di risorse latinoamericane che alloggia nelle gole statunitensi e, per molti aspetti, spiega alcune delle vere ragioni che spingono la IV Flotta della US Navy nei Caraibi.

Gli Stati Uniti non sono nei Caraibi per fare la guerra alla droga: se fosse stato così avrebbe dovuto procedere ad alcune migliaia di arresti nei 3500 laboratori di Fentanyl che si trovano in territorio statunitense, allo smantellamento dei cartelli statunitensi e alla chiusura di enti bancari e finanziari che ne riciclano i proventi, molti di questi operanti a Wall Street.

Che la loro presenza militare nei Caraibi abbia contorni di illegittimità e di illegalità, dato che a tutti gli effetti minaccia la libera navigazione anche con attacchi ingiustificati su imbarcazioni civili peschiere, lo ha reso evidente lo stesso Alvin Holsey, l’ormai ex Ammiraglio in capo del Comando Sud (e dunque anche della IV Flotta) dimettendosi proprio in nome del rispetto del codice di navigazione e delle leggi di guerra.

Il rispetto di questi impedirebbe le modalità dell’operazione navale in corso, il cui scopo è solo di minacciare, terrorizzare; prova ne sia che gli ipotetici corrieri della droga non vengono abbordati o bloccati ma gli si spara direttamente, senza peritarsi nemmeno di chi vi sia a bordo, cosa stia facendo e se rappresenta o no un pericolo. L’idea è quella di sparare prima e vedere poi a chi. Si chiama terrorismo di Stato, senza virgolette.

Gli Stati Uniti sono di fronte alle coste del Venezuela con due obiettivi: uno immediato e un altro in prospettiva. Quello immediato è la caduta del governo di Nicolas Maduro; quello più ampio vorrebbe la fine dell’ALBA ovvero Cuba e Nicaragua. Il primo obiettivo propone due opzioni: un attacco diretto cercando un falso casus belli o riuscire, aggressione dopo aggressione, obbligare ad una reazione che possa giustificare l’attacco a Caracas. La guerra psicologica è, per ora. la strada scelta ma le due opzioni non si escludono l’una con l’altra.

Fa parte di questa guerra psicologica l’annuncio dell’ordine impartito alla CIA di promuovere un colpo di Stato in Venezuela, ma non c’è nessuna novità che non sia, appunto, quella di provocare; dall’avvento di Hugo Chavez ad oggi è sempre stato all’ordine del giorno e il fallimento dei tentativi di golpe ai danni del Comandante Chavez e di magnicidio del Presidente Maduro non hanno comunque prodotto un cambio di indirizzo da parte di Langley. L’altro elemento di questa guerra psicologica è appunto l’indirizzo degli attacchi a imbarcazioni a pescatori innocenti, che conferma il comportamento stragista dei suoi militari e dimostra come l’attività delle navi USA sia  configurabile a tutti gli effetti come un blocco navale.

Il petrolio del Venezuela è l’obiettivo politico immediato. Nei suoi confronti non c’è lettura del contesto, ragionamento sugli equilibri, prefigurazione di un assetto valido per tutti gli attori: l’unità di misura con cui gli USA leggono il Venezuela sono solo i barili di petrolio. E’ la più grande riserva al mondo. La fascia dell’Orinoco, un’area di 54mila chilometri quadrati lungo il corso del fiume omonimo, potrebbe contenerne fino a 1300 miliardi di barili secondo le stime più ottimiste, una quantità quasi pari a quella di tutte le risorse di petrolio convenzionale del globo.

Ma già oggi le sue riserve ufficiali ammontano a 303,3 miliardi di barili, collocando Caracas al primo posto nella classifica mondiale secondo l’annuario Bp, una delle fonti statistiche più accreditate nel settore. Gli Stati Uniti, nonostante lo shale oil, sono solo decimi in classifica, con 44,2 miliardi di barili, superati anche da Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Russia e Libia e la loro produzione viene in gran parte consumata internamente. Se così non fosse, se non avessero interesse nel prelevare le risorse energetiche e alimentari degli altri per sopravvivere e soggiogare, di esercitare il comando perché incapaci al governo, non manterrebbero le circa 800 basi militari in tutto il mondo.

Nell’intero Occidente Collettivo, dove gli Usa vogliono avere il ruolo di unico venditore del greggio, a maggior ragione a seguito del sostanziale fallimento dell’economia green e il rinnovato sostegno al fossile, la centralità del petrolio ha assunto carattere strategico come mai prima d’ora. Se si legge il blocco alle importazioni da Russia, Iran e Venezuela, è chiaro come la mappa di estrazione e fornitura del greggio sia divenuta prioritaria nell’agenda politica trumpiana.

Persino per il loro fabbisogno diretto, perché la deindustrializzazione che è andata imponendosi con la finanziarizzazione dell’economia, non ha ridotto il fabbisogno energetico e gli Stati Uniti producono giornalmente 15.837.640 di barili di petrolio ma ne consumano quotidianamente 20 milioni.

Le cose non sono semplici per una società sempre più energivora: le riserve accertate delle quali dispongono sono equivalenti a 4,9 volte i loro livelli di consumo annuale. Ciò significa che, senza importazioni e senza appropriarsi di altre forniture, avrebbero circa 5 anni di petrolio (ai livelli di consumo attuali e escludendo le riserve non accertate). Sufficiente per un Paese normale ma troppo poco per un paese delle dimensioni e delle ambizioni degli USA. Insignificante per il suo commercio.

Perché il Venezuela? Perché è molte cose: protagonista assoluta, insieme al Nicaragua e a Cuba, del socialismo latinoamericano, autentica sfida al modello fallito neoliberista. L’ALBA è oggi l’unica, credibile alternativa di modello, l’unica dottrina socioeconomica orientata al riequilibrio sociale come propulsore di ricchezza che possa permettere una forte riduzione della povertà endemica di decine e decine di milioni di latinoamericani.

Proprio di fronte al fallimento sociale ed anche amministrativo di un modello come quello USA, che si trova ogni anno nell’impossibilità di coprire un deficit pubblico mostruoso quanto strutturale, il socialismo latinoamericano offre lezioni di buona politica e buona economia. I modelli - diversi ma omogenei tra loro - di democrazia popolare in Nicaragua, Venezuela e Cuba, lontanissimi dalla divinizzazione delle privatizzazioni dei servizi che annullano l’universalità della loro erogazione, si presentano con numeri e tesi decisamente incoraggianti per quanto riguarda la tenuta dello Stato e, con essa, della direzione politica delle società.

Caracas ha reagito alla guerra imposta da oltre un decennio e, oltre ad una trattativa paziente con le grandi compagnie estrattive, ha stretto rapporti con Russia e Iran che le hanno permesso di rompere le maglie dell’assedio commerciale e politico al quale la sottopone l’occidente collettivo. Ha anche ottenuto dalla Cina prestiti per circa 40 miliardi di dollari, che sta ripagando con l’invio di quantità crescenti di petrolio. Nonostante la distanza, le importazioni cinesi di greggio dal Venezuela sono decuplicate dal 2008 a oggi, superando i 600.000 barili al giorno. Quelle degli Stati Uniti sono invece crollate sotto gli 800.000 barili al giorno, ai minimi da quasi trent’anni. Il petrolio venezuelano è dunque strategico per Washington, a maggior ragione quando la produzione energetica russa si è dovuta orientare su mercati esterni all’Occidente Collettivo.

Come si intende nulla hanno a che vedere i commerci di droga per un paese che del resto ne dirige importazioni, distribuzione, consumo e proventi. La scommessa di Trump, sollecitato da Rubio e dal clan mafioso dei fuoriusciti latinoamericani radicati a Miami, ha solo il sapore di un antico ritorno del monroismo proprio mentre, a livello globale, la caduta pare ormai inarrestabile.

La scommessa sul dominio dell’America Latina, ben più e ben oltre che una questione di dominio territoriale, ha valore globale. Rappresenta sia un paradigma offensivo di un impero duro a morire che un modello di resistenza che indica la via di uno sviluppo diverso per società moderne. In questo senso la presenza della IV Flotta della US Navy assume un rilievo che pesa ad ogni latitudine. Lo scontro è scontro di civiltà del Diritto. Mai come ora, l’America Latina libera è una delle condizioni per rendere liberi tutti.

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casari fabrizio Fabrizio Casari giornalista, direttore di Altrenotizie, analista di politica internazionale, è un profondo conoscitore della realtà del Centro e Sud America. Autore del saggio, "Nicaragua, l'ultima rivoluzione". Maremagnum. 

 

 

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