Dopo il Coronavirus sarà lo stesso mondo di prima? Dicono di no

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IL MONDO DOPO IL CORONAVIRUS

La sola cosa che si sa con certezza è che non si era e non si è preparati a gestire una pandemia nemmeno negli Stati Uniti che le classi dirigenti di tutta Europa prendono a esempio e che pretende di guidare il mondo. L’unica realtà prevedibile è che il mondo che verrà sarà profondamente legato al mondo degli ultimi decenni, ma in peggio perchè in questi tre mesi l'emergenza è stata gestita male a livello mondiale con OMS, Stati, ministri, protezioni civili e con l'umanità come grande assente.

di John Feffer

banksy coronavirusL’ultima opera di Banksy raffigura la sua vita durante l’isolamento a causa del Coronavirus. L’artista (senza volto) per l’occasione ha riprodotto dei topi intrappolati nel suo bagno, proprio come un uomo che impazzisce per tale costrizione.La tattica più insidiosa del COVID-19 è indurre l’organismo di una persona ad attaccare sé stesso. Nei casi peggiore il sistema autoimmunitario dell’organismo letteralmente impazzisce mentre cerca di combattere l’infezione. Questa “tempesta di citochina” può determinare gravi infiammazioni dei polmoni e alla fine un crollo maggiore dell’organo.

Il COVID-19 pare aver avuto un effetto simile sul sistema internazionale. Invece di collaborare, la comunità globale ha cominciato ad attaccare sé stessa. I meccanismi ideati per agevolare la cooperazione internazionale – confini, scambi – hanno cominciato a operare contro tale cooperazione. Nei casi peggiori, paesi hanno cominciato a scontrarsi per forniture sanitarie che, condivise equamente, avrebbero potuto salvare il maggior numero di persone.

Questa tempesta di citochina politica avrà conseguenze durature. Una delle vittime può alla fine essere l’Unione Europea.

In un mondo ideale l’epidemia di COVID-19 in Cina avrebbe attivato una reazione internazionale uniforme.

Ogni paese avrebbe messo in atto gli stessi protocolli sviluppati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità dopo l’epidemia della SARS e una squadra globale di esperti avrebbe aiutato la Cina a contenere la crisi. Poi il mondo avrebbe potuto evitare la più recente minaccia pandemica e non finire nell’attuale avvitamento sanitario ed economico.

In assenza di un reazione globale coordinata, differenti regioni del mondo avrebbero potuto comunque fare squadra per combattere la malattia infettiva.

In Asia ogni paese ha affrontato la sfida a modo proprio, virtualmente tutti meglio della reazione statunitense. Taiwan, nonostante la sua prossimità con l’entroterra cinese, ha mantenuto a tre cifre il numero dei contagi. La Corea del Sud ha sviluppato una sofisticata reazione tecnologica per appiattire la curva dopo un focolaio iniziale. Ciò che i paesi asiatici, tuttavia, non hanno fatto è stato unirsi come regione. Persino presunti alleati come Giappone e Corea del Sud hanno colto l’occasione per amplificare la loro lunga faida scambiandosi accuse e imponendo mutue restrizioni ai viaggi. Solo recentemente Cina, Giappone e Corea del Sud hanno cominciato a coordinare la loro reazione alla pandemia.

L’America Latina, lacerata da numerose divisioni ideologiche, ha avuto reazioni estremamente divergenti al COVID-19, dal negazionismo di Jair Bolsonaro in Brasile e di Daniel Ortega in Nicaragua, a una rigida quarantena in Peru.

Avendo respinto diverse epidemie di Ebola, paesi africani hanno mostrato un po’ più di spirito cooperativo, grazie a istituzione quali il progetto di Rafforzamento dei Sistemi Regionali di Sorveglianza delle Malattie.

Considerato il comportamento imprevedibile di Donald Trump durante questa crisi, ci si dimentichi di una strategia nordamericana. Di fatto non c’è stata neppure una strategia coordinata statunitense proveniente da Washington.

L’Europa avrebbe dovuto essere diversa. Per decenni l’Unione Europea ha costruito la propria cooperazione istituzionale nell’economia, nella politica e nella cultura. Di certo avrebbe attaccato una minaccia esterna come il coronavirus in modo unificato. Non l’ha fatto.

L’Italia è stato il primo focolaio a emergere nell’Unione Europea. Nel giro di pochi giorni dal primo caso riferito di contagio in Lombardia il 20 febbraio, il COVID-19 ha imposto un’enorme tensione agli ospedali dell’Italia settentrionale. La reazione della UE è stata in larga misura burocratica: più consultazioni. Quando si è trattato di assistenza concreta, la UE ha avuto poco da offrire all’Italia.

Il 10 marzo, solo un paio di settimana dopo la comparsa del suo primo caso, il rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, Maurizio Massari, ha scritto in termini inequivocabili su Politico:

L’Italia ha già chiesto di attivare il Meccanismo di Protezione Civile dell’Unione Europa per la fornitura di attrezzature sanitarie per la protezione individuale. Ma, purtroppo, nemmeno un solo paese della UE ha risposto all’appello della Commissione. Solo la Cina ha risposto bilateralmente. Certamente questo non è un buon segno di solidarietà europea.

Peggio, un certo numero di paesi europei come Francia e Germania ha in realtà imposto limiti alle esportazioni di forniture mediche cruciali, temendo di averne bisogno nei giorni successivi.

L’intervento finale della Commissione Europea per imporre restrizioni alle esportazioni a livello regionale in cambio della revoca da parte dei membri della UE dei loro divieti nazionali potrebbe aver alleviato alcune scarsità all’interno del blocco, ma a spese delle nazioni più povere al suo esterno. Agli inizi di aprile l’Italia non è  tuttora nemmeno lontanamente prossima ad assicurarsi i 90 milioni di mascherine di cui ha bisogno.

Per molti italiani l’assenza di solidarietà europea non è stata una novità. Scrive Luigi Scazzeri del Centro per la Riforma Europea:

Nel decennio scorso l’Italia è passata dall’essere uno dei sostenitori più entusiasti di una maggiore integrazione europea a uno degli stati membri più euroscettici. Molti italiani hanno sentito che l’Italia non ha ricevuto molta solidarietà europea durante la crisi dell’eurozona e che l’Unione ha operato da impositrice di dannose politiche di austerità. Il danno alla visione della UE degli italiani è stato poi aggravato dalla reazione del blocco alla crisi dell’immigrazione. L’Italia ha accolto 650.000 migranti tra il 2014 e il 2018 e tentativi di distribuirli tra altri paesi della UE sono stati largamente simbolici

OK, dunque la UE ha fatto un casino della sua reazione al COVID-19. Certamente non è solo nel travisare la portata della crisi e a mancare di agire nel miglior interesse di tutti.

Ora ha una seconda possibilità di operare bene come blocco nell’affrontare la crisi economica che si sta sviluppando sulla scia del COVID-19. Tuttavia pare sull’orlo di ripetere un precedente insieme di errori.

Quando l’Europa era affondata nella sua crisi del debito sovrano un decennio fa, alcuni paesi hanno chiesto Eurobond. Questo strumento di debito comune, proposto dall’eurozona nel suo complesso, avrebbe potuto offrire accesso a credito a minor costo a tutti i membri, specialmente a quelli più duramente colpiti dalla crisi finanziaria. Le nazioni più indebitate, come Grecia e Italia, appoggiavano l’idea. I tedeschi e gli olandesi, preoccupati di sussidiare quello che consideravano un cattivo comportamento economico, avevano bocciato l’idea.

Virtualmente la stessa tesi è riemersa oggi con gli Euro bond diventati Corona bond con gli stessi paesi a favore e gli stessi paesi contro. Infuriati per l’opposizione a tali Corona bond, ha scritto Bloomberg, alcuni politici italiani hanno comprato un’intera pagina di un giornale tedesco “accusando gli olandesi di ‘mancanza di etica e di solidarietà’ e ricordando non velatamente ai tedeschi la solidarietà dimostrata loro dall’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale quando i debiti della Germania furono cancellati o ristrutturati in una conferenza del 1953”.

La UE ha assunto alcune misure spettacolari in reazione allo shock economico degli isolamenti.

Ha ammorbidito le norme che regolano la spesa per permettere pacchetti di stimolo su vasta scala. La Banca Centrale Europea ha reso disponibili 820 miliardi di dollari per acquistare titoli europei, il che ridurrà il costo dell’indebitamento per i paesi peggio colpiti. L’eurozona ha il proprio Meccanismo Europe di Stabilità progettato per aiutare i paesi in difficoltà con 400 miliardi di euro a propria disposizione. Il capo della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha anche annunciato la settimana scorsa che la UE “stanzierà fino a 100 miliardi di euro (110 miliardi di dollari) a favore dei paesi colpiti più duramente, a cominciare dall’Italia, per compensare la riduzione dei salari per coloro che lavorano a orario ridotto”.

Ci sono altre proposte, tra cui un pacchetto di stimolo a livello europeo, che si aggiungerebbe ai salvataggi che ciascun governo nazionale ha posto in atto, e un Fondo Europeo di Garanzia che potrebbe raggiungere i 200 miliardi di euro.

E’ un mucchio di denaro disponibile ai membri del club. Forse è denaro sufficiente per comprare – ehm, garantire – la lealtà anche dei più euroscettici.

Dunque perché Italia, Spagna, Francia e altri paesi continuano a spingere per i Coronabond? Vogliono che il debito sia mutualizzato – cioè condiviso – anziché scaricato sulle spalle dei più negativamente colpiti. E sono preoccupati che gli altri accordi siano accompagnati da condizioni che assomiglieranno a ciò che è stato richiesto loro durante l’ultima crisi finanziaria.

Ciò che tedeschi e olandesi preferiscono, che comprenderebbe alcuni condizioni, potrebbe sembrare avere economicamente senso. Ma potrebbe anche aggravare le fratture già presenti nella UE e spingere l’eurozona, se non il blocco più vasto, a un punto di rottura.

Prima che il coronavirus attaccasse, pareva che l’Europa si stesse sgretolando in molte direzioni diverse.

Il Regno Unito era in via d’uscita. L’Ungheria e diversi paesi dell’Europa dell’Est stavano procedendo in una direzione distintamente autoritaria. L’Italia stava amoreggiando con il populismo di destra.
Sul fronte economico la Germania restava una potenza, la Grecia non aveva recuperato tutto il terreno perso dalla crisi del 2009 e i paese dell’Europa dell’Est non avevano ancora colmato il divario con la metà occidentale del continente.

L’estrema destra, che stava guadagnando forza nel Parlamento Europeo, aveva deciso di non seguire l’esempio della Brexit ma invece operare all’interno del sistema per trasformare la UE. Il coronavirus poteva ben essere il suo migliore alleato in questa lotta per la devoluzione del potere da Bruxelles ai singoli stati membri.

Prima è arrivata la reintroduzione dei controlli nazionali ai confini nell’ambito dell’Area Schengen, con la Germania che ha fatto lo stesso per ultima il 16 marzo. Dieci giorni dopo l’Europa doveva celebrare il venticinquesimo anniversario dell’abolizione di Schengen dei controlli confinari. Invece ci sono nuovi cancelli e barriere stradali dove non molto prima i viaggiatori potevano passare tra paesi senza neppure rendersene conto. Non è chiaro quando restrizioni agli spostamenti intraeuropei saranno cancellate.

Poi sono arrivate le politiche più restrittive nei confronti dei migranti tuttora alla ricerca disperata di arrivare in Europa.

Il 17 marzo la UE ha chiuso i suoi confini ai non nazionali. La Grecia aveva già mandato soldati al suo confine con la Turchia per impedire ai profughi di attraversare via terra. Ma le persone continuano a tentare di raggiungere l’Europa per mare. Degli 800 che hanno lasciato la Libia a marzo, 43 sono arrivati in Italia e 155 sono approdati a Malta. La guardia costiera libica ha raccolto i restanti e li ha riportati in Libia. Ora che i primi casi di contagio stanno comparendo in campi profughi in Grecia, gli sforzi di contenimento si stanno rivolgendo all’interno.

Per contro il Portogallo ha concesso audacemente a tutti i migranti e richiedenti asilo pieni diritti di cittadinanza su base temporanea in modo che possano ricevere assistenza sanitaria durante la pandemia.

In tutta Europa le politiche nazionali stanno sbaragliando norme e regolamenti di livello regionale. Il caso più estremo è l’Ungheria, dove Viktor Orban ha dichiarato uno stato d’emergenza che gli concede un potere quasi illimitato per un arco di tempo ignoto. Altri stati, come Spagna e Regno Unito, hanno dichiarato stati di emergenza ma senza una comparabile violazione del primato della legge. E alcuni paesi, come Romania, Estonia e Latvia hanno invocato l’articolo 15 della Convenzione Europea sui Diritti Umani che consente stati d’emergenza “in tempi di guerra o di altre emergenze pubbliche che minaccino la vita della nazione”.

L’autoritarismo dell’Ungheria, la generosità del Portogallo, la richiesta di solidarietà dell’Italia, la taccagneria della Germania: le reazioni europee alla crisi attuale sono letteralmente le più varie.
Questo non fa presagire nulla di buono per il futuro dell’Unione Europea. Come ha dichiarato al The Guardian Nathalie Tucci, ex consigliere del capo della politica estera della UE: “Questo è decisamente un momento da ‘o la va o la spacca’ per il progetto europeo. Se va male questa davvero rischia di essere la fine dell’unione. Alimenta l’intero populismo nazionalista”.

Oggi l’Europa è nel mezzo di una tempesta di citochina. I medici stanno attaccando i pazienti ai respiratori del salvataggio economico. E’ incerto se questa strategia salverà il paziente o non farà che prolungarne l’agonia. Di certo, tuttavia, se la UE sopravvivrà alla sua intubazione emergerà dall’altro lato  un sopravvissuto diverso e forse molto più debole.

John Feffer è direttore di Foreign Policy in Focus.

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