La sorte dei bimbi arcobaleno in Italia la decide il Tribunale

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Il Gay Pride che si festeggia in questo mese di Giugno offre uno spunto di riflessione sul come vengono difesi e amministrati i diritti civili nell'Europa degli Stati fondatori. L'Italia fa storia a sé.

Negli Stati dell'Europa che conta l'adozione di minori da parte delle coppie di fatto è legalmente riconosciuta. In Italia il governo continua ad interrogarsi (e non si sa per quanto  tempo ancora) sull’ opportunità di  allargare il ventaglio dei diritti civili.

bimbi arc66L’adozione da parte di coppie dello stesso sesso (“adozioni gay”) è l’istituto giuridico che permette (appunto) alle coppie dello stesso sesso di adottare minori. L’adozione è vista e disciplinata in maniera diversa da Stato a Stato, ha subito una radicale evoluzione fino a superare confini in passato considerati invalicabili… fino a rischiare di sfiorare il tabù.

Oggi in ben 26 Stati le coppie gay possono addentrarsi nella (più o meno) burocratizzata giungla dell’adozione di minori: Spagna, Francia, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, Islanda, U.S.A., Canada, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica, Finlandia, Andorra, Colombia, Irlanda, Malta, Portogallo e Nuova Zelanda.

L’adozione dei figli del partner, la c.d. stepchild adoption o adozione del configlio, è disciplinata in Italia sin dal 1983 con la legge n. 184. La stepchild adoption per le coppie omosessuali è stata però riconosciuta per via giurisprudenziale (quindi grazie ai tribunali) già dal 2014, prima dell’emanazione della legge n. 76 del 2016, ossia la legge Cirinnà, che ha introdotto le unioni civili tra persone dello stesso sesso.

Tuttavia, a causa di un “compromesso” tra forze politiche, la legge Cirinnà non interviene in tema di stepchild adoption; infatti, la legge del 2016 dispone “Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”, ma la norma non impedisce alla giurisprudenza di seguire la direzione dell’applicazione delle regole sull’adozione anche alle coppie non legate da vincolo matrimoniale e alle coppie arcobaleno.

Tutti felici e contenti? No, o meglio contenti sì… ma accontentarsi no… perché accontentarsi di una posizione riconosciuta una tantum dalla giurisprudenza lascia certi (molti) individui e coppie un passo indietro rispetto ad altri, condizione questa non perfettamente soddisfacente né in linea col dettato “aperto” della Costituzione Italiana.

Oltre il Belpaese c’è tutto un gran pezzo di mondo che tutt’oggi (e per i prossimi decenni o le future generazioni) s’interroga (e s’interrogherà per parecchio tempo ancora) sull’ampliamento o meno del ventaglio dei diritti civili.

Mentre l’American Psychological Association (APA) già nel 2004 ha dichiarato di opporsi a qualsiasi discriminazione fondata sull’orientamento sessuale in materia di adozioni da parte di persone omosessuali, la Congregazione per la Dottrina della Fede (l’organismo della Curia romana incaricato di promuovere e tutelare la dottrina della Chiesa cattolica) si oppone ai progetti di approvazione legale delle unioni tra persone dello stesso sesso, considerando tali legami come innaturali; in breve, per la Chiesa cattolica sarebbe una violenza costringere dei bambini all’interno di nuclei familiari omosessuali per mezzo dell’adozione.

Il bambino come interesse superiore da tutelare (riconosciuto dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia) è meglio garantito all’interno di una coppia eterosessuale “rafforzata” dal vincolo del matrimonio? L’amore di una persona eterosessuale è di migliore qualità (un po’ come se si parlasse del latte prodotto dalle diverse tipologie di vacche) rispetto all’amore che può offrire una persona omosessuale?

 

Partiamo dall’ABC… anzi dalle lettere M e F

Quando un bambino viene al mondo gli è assegnato un sesso: M (maschio) o F (femmina). A tale aggiudicazione si giunge attraverso l’osservazione degli organi genitali esterni. Col termine “sesso” s’indica esclusivamente l’anatomia di una persona, mentre con la parola “genere” ci si riferisce tanto alla percezione che ciascuno ha di sé o identità di genere, quanto al ruolo socialmente inquadrato. Poiché molte persone vivono una condizione d’intermittenza tra sesso e identità di genere, in alcuni paesi (come la Germania) è stata introdotta la variante “terzo genere”. Per completezza, occorre narrare un’altra sfaccettatura del complesso pianeta “essere umano” e cioè l’orientamento sessuale, ossia l’attrazione emozionale e/o sessuale di una persona verso individui di sesso opposto o dello stesso sesso.

I tre criteri di cui sopra (sesso, identità di genere e orientamento sessuale) sono anche tre visioni di percezioni della propria vita e di quella degli altri, del proprio mondo e del mondo circostante. Quello umano è, in effetti, un racconto complesso, è una realtà complicata perché tocca la sfaccettata sfera personale. Non è più il tempo del “o maschio o femmina”, perché le sfumature tra l’essere maschi o femmine non riguardano soltanto la natura biologica dell’animale uomo e donna (e se così fosse sarebbe riduttivo e svilente, oltre che anacronistico).

 

Il genere è uno spettro.

Questa frase è uno dei tormentoni della comunità LGBT e sottolinea un punto di vista sempre più diffuso: non esistono solo un genere femminile e un genere maschile, ma esiste uno spettro continuo di generi tra questi due estremi. Questa visione così ampia soddisfa esigenze molteplici, teoricamente infinite, perché moltissima gente non si riconosce nell’identità di genere stabilita alla nascita dalla presenza del pene o della vagina. Nel caos dei dibattiti su sesso, identità di genere e orientamento sessuale, un buon punto di partenza potrebbe essere quello dell’educazione linguistica.

Nel paese della pasta asciutta e della pizza, il confronto sulle diverse spiegazioni delle varie identità di genere è parecchio recente rispetto ad altri luoghi del mondo. I primi ad aver aperto un dibattito serio sono stati gli inglesi. E sono inglesi molte delle parole che hanno arricchito il nostro lessico: cisgender (uomini e le donne che si riconoscono nel genere corrispondente al loro sesso biologico); transgender (persone che si riconoscono nel genere opposto al loro sesso biologico, oppure in un genere intermedio tra il maschile e il femminile); genderqueer (persone che si oppongono agli stereotipi sui generi e si riconoscono in un mix personale di caratteristiche che possono essere associate al genere femminile o al genere maschile); genderfluid (persone che a volte si riconoscono nel genere femminile, altre volte in quello maschile, o che si definiscono gender questioning perché si stanno ancora interrogando sulla propria identità di genere); agender (persone che rifiutano di identificarsi in un genere); etc.

È una questione di linguaggio? Sì, anche… ma non solo. È pur vero che dei codici sono indispensabili per discutere, comunicare, confrontarsi e crescere sulla strada della reciproca convivenza. È soprattutto una questione di evoluzione della coscienza civica, quella coscienza nobile che se non oggi un domani (si auspica non lontano) dovrà definitivamente dettare l’agenda politica di questo e dei prossimi governi. È una questione che ha a che fare con lo sviluppo civile dell’umanità, la cui sponda opposta non può che precipitare nel buio baratro del regresso. Per tutte queste ragioni il Gay Pride ha (ancora) senso e necessità di esserci o esser fatto.

 

 

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Perché “Pride”? Ancora una volta l’Inghilterra soccorre il nostro vocabolario: “Pride” è la parola inglese che sta a significare Orgoglio. Il Pride è indispensabile perché un diritto non è mai acquisito per sempre. I diritti e le libertà fondamentali oggi garantiti rappresentano un territorio solo in parte conquistato; e intanto che si studiano nuove tattiche per espugnare nuovi spazi, è meglio non abbassare la guardia e organizzare strategie di conservazione di ciò che duramente è stato ottenuto.

A singhiozzo la storia ha raccontato di ère sperimentali o di singoli episodi di libertà sessuale e sentimentale. Gli intellettuali teutonici dell’Ottocento non si facevano tanti scrupoli a scrivere di amicizie virili, fino a coniare il termine “mascolinismo” per indicare proprio la massima espressione dell’esperienza spirituale maschile. Ed è nel corso della Repubblica di Weimar che sbocciano istituti di sessuologia per etero, gay e anche travestiti e transessuali (è in questi anni che si compiono i primi interventi per il cambio del sesso).

Dalla rivolta newyorkese di Stonewall del 1969 (data simbolica d’inizio del movimento di liberazione omosessuale) a oggi, esistono ben 72 paesi nel cui territorio l’omosessualità è un reato (con pene che arrivano alla condanna a morte). I Pride sì che sono utili, perché rendono omaggio a tutte le persone che hanno marciato e sacrificato la propria vita, non tanto e non solo per conquistare diritti per sé, quanto per consegnare un mondo migliore alle generazioni future.

Tra strade ancora da percorrere e montagne ancora da scalare, in Italia e grazie alla legge del 2016 un altro pezzo del grande puzzle dei diritti civili è stato acquisito e coppie di donne o di uomini possono creare la propria “formazione sociale specifica”. Quindi una famiglia? No. Non sia mai! La condizione (una delle...) per l’acquisizione del ricercato pezzo del grande puzzle dei diritti civili è di non definire “famiglia” l’unione legale tra donne o tra uomini. Alla beffa si assomma il riconoscimento del nulla sul piano della genitorialità, salvo intervento provvidenziale del giudice.

E quando altrove (Germania) si passa dalle mere unioni civili al matrimonio in senso stretto per chiunque desideri optare questa possibilità, in Italia il legislatore si confonde tra le tante posizioni contrapposte e fugge indirizzando il suo popolo su questioni ritenute di primo interesse e distanti anni luce dal tema dei diritti civili. Accusato da più fronti d’invasione di competenza, spetta (ormai da decenni) al giudice prendere la parola per colmare certe lacune sistemiche.

Con una sentenza a Sezioni Unite, la Corte di Cassazione ha detto no al riconoscimento dei figli delle coppie gay, ma apre alla stepchild adoption. La Corte ha dichiarato che il riconoscimento del rapporto di filiazione con l’altro componente della coppia si pone in contrasto con il divieto della surrogazione di maternità previsto della legge n. 40 del 2004 (art. 12, comma sesto), ravvisando in tale disposizione un principio di ordine pubblico, posto a tutela della dignità della gestante e dell’istituto dell’adozione; è stato tuttavia precisato che i valori tutelati dal predetto divieto, ritenuti dal legislatore prevalenti sull’interesse del minore, non escludono la possibilità di attribuire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983. 

Nonostante la buona volontà della magistratura, su tutte le questioni sopra esposte pare sia facile ammettere che l’Italia non stia facendo dei grandi passi in avanti. Il cittadino eterosessuale (e si potrebbe persino aggiungere “uomo” e “macho”) rimane quello di serie A, mentre il matrimonio si ferma a istituto facoltativo per tanti ma non per tutti e i diritti e la sorte dei bambini arcobaleno sono legati alla distrazione o alla saggezza dei tribunali.

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Luca Manduca
È nato a Catania nel 1974. Maestro d'arte e grafico pubblicitario, laureato in giurisprudenza, tutor di diritto e economia, conciliatore. Attualmente vive a Milano, collabora col Centro Studi Berlin89 e scrive per la testata giornalistica Berlin'89.
Autore del libro "Una sana ossessione - Tra gli eroi, i luoghi e gli incanti di Chiamami col tuo nome - (Cavinato Editore)
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