Iran–Egitto, il Pride Match che scotta

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La decisione di far giocare Iran–Egitto nel quadro ufficiale del Pride Match del 26 giugno 2026 a Seattle è stata presentata come una coincidenza, una di quelle fatalità che capitano quando sport, valori e calendario si intrecciano.

Pride home2L'idea di celebrare inclusività e diritti LGBTQ+ con protagoniste due Nazioni che perseguitano le identità LGBTQ+ ha il sapore della beffa, appare come un gesto simbolico vuoto, potenzialmente offensivo. Ma c’è poco di casuale in una scelta che rischia di trasformare una partita di calcio in un incidente diplomatico annunciato. E soprattutto c’è poco di ingenuo nel far scendere in campo due nazioni in cui l’omosessualità è repressa, criminalizzata e in certi casi soppressa fisicamente, dentro una cornice costruita per celebrare l’orgoglio LGBTQ+. Perché una cosa è certa: se volevano evitare polemiche, hanno scelto l’abbinamento più sbagliato possibile.

Domanda semplice: perché proprio il 26?

Il comitato locale di Seattle sostiene che la scelta della data è stata presa mesi prima del sorteggio. Benissimo. Ma a questo punto permettetemi una domanda ovvia: perché legare il Pride Match proprio alla partita che cade esattamente prima dell’anniversario dei moti di Stonewall, quando altri incontri del 27 e 28 giugno – magari tra Paesi democratici e aperti – avrebbero dato un senso simbolico più coerente e meno incendiario?

La risposta ufficiale non c’è. Quella reale è sotto gli occhi di chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la politica internazionale: nel 2026, ogni evento globale è anche un messaggio. E questo messaggio, volenti o nolenti, è stato recapitato proprio a Teheran e al Cairo.

Il contesto iraniano: realtà e non propaganda

Ci sono Paesi in cui i diritti LGBTQ+ sono ignorati. E poi c’è l’Iran, dove essere gay è considerato un crimine contro lo Stato e contro la religione. Non si tratta di retorica occidentale: le organizzazioni per i diritti umani hanno documentato casi reali e verificati.

Il 30 gennaio 2022 Mehrdad Karimpour e Farid Mohammadi sono stati impiccati nella prigione di Maragheh dopo circa sei anni nel braccio della morte. Il reato formalmente contestato era quello di “sodomia forzata”. È la formula giuridica che il sistema giudiziario iraniano applica anche a rapporti omosessuali consenzienti, quando decide di punirli con la massima severità. Ecco la realtà con cui Seattle dovrà fare i conti quando deciderà di colorare lo stadio di arcobaleni con la nazionale iraniana in campo.

Egitto: tolleranza di facciata e ribaltamento del Qatar 2022

L’Egitto non arriva alle condanne a morte, ma non per questo è un paradiso progressista. Le leggi egiziane consentono arresti arbitrari di persone LGBTQ+ con pretesti amministrativi, morali, “di decoro pubblico” o addirittura tramite trappole sui social.

La Federazione Egiziana (EFA) ha inviato una lettera formale alla FIFA per "rigettare in termini assoluti" qualsiasi attività legata al supporto dell'omosessualità durante la partita, sottolineando che tali iniziative "contraddicono direttamente i valori culturali, religiosi e sociali" della regione. E se una federazione comincia così, possiamo immaginare il tono diplomatico che seguirà.

Ricordiamo tutti la morale a gettone della FIFA in Qatar, quando prima ha difeso “la cultura del Paese ospitante” e poi ha proibito la fascia One Love, improvvisandosi custode dell’ordine mondiale.

Ora assistiamo allo scenario opposto: un Paese ospitante progressista che usa il Pride come cornice celebrativa e due Paesi profondamente conservatori costretti a giocarci dentro. E la FIFA in mezzo, a galleggiare come sempre, cercando disperatamente di non irritare nessuno mentre riesce a irritare tutti.

Infantino, l’ubiquità del servilismo

In tutto questo, il ruolo della FIFA è quello che è: minimo, ambiguo, e vagamente ridicolo quello di Gianni Infantino. L’uomo capace di piegarsi in qualunque direzione tiri il vento, sempre con quella stucchevole retorica dell’empatia prêt-à-porter. Non inventa nulla: già Sepp Blatter, nel 2010, aveva mostrato la cifra culturale del calcio mondiale suggerendo agli omosessuali in visita in Qatar di “astenersi da qualsiasi attività sessuale”. Un monumento all’arretratezza travestito da battuta.

Infantino prende quell’eredità e la perfeziona nel suo teatrino personale: a Doha si dichiara “disabile, gay, lavoratore migrante”, come se bastasse un giro di parole per lavare via la realtà di un Paese in cui essere gay è reato e in cui migliaia di operai stranieri sono morti per costruire gli stadi. E mentre pronuncia quel sermone sull’inclusione universale, la FIFA sotto la sua guida minaccia sanzioni alle squadre che vogliono indossare la fascia “One Love” in solidarietà alle minoranze sessuali.

Ecco Infantino: un funambolo della retorica, capace di dichiararsi tutto e il contrario di tutto, purché resti dalla parte del potere. L’ubiquità del servilismo elevata a metodo di governo.

Politica interna americana: benzina sul il fuoco

Seattle è una città progressista con una comunità LGBTQ+ forte e visibile. Ma è anche una città con una comunità musulmana significativa e con un contesto politico nazionale pronto a esplodere alla prima occasione.

Trump userà questa storia - è solo questione di tempo – per accusare la città di imporre la “dittatura woke” in uno sport globale. E Seattle userà la stessa storia per ribadire la sua identità progressista. Nel mezzo, le due nazionali islamiche verranno strumentalizzate in un gioco politico che non hanno scelto.

Il 26 giugno 2026 vedremo qualcosa che va ben oltre lo sport. È uno scontro simbolico tra un’America progressista che usa il mondiale come megafono culturale, e due Stati che considerano la libertà sessuale una minaccia all’identità nazionale e religiosa.

È una data che metterà a nudo, ancora una volta, la grande illusione dello sport “neutrale”. Ed è anche la dimostrazione che il Pride, nel 2026, non è più una celebrazione: è un atto politico globale, e di conseguenza un campo minato geopolitico.

La vera domanda, allora, non è se Iran–Egitto sia una coincidenza. La vera domanda è: siamo sicuri che qualcuno non abbia voluto proprio questo tipo di esplosione simbolica?


Kamran Babazadeh copy copy copy copyKamran Babazadeh nel 1978 era tra i giovanissimi che a Teheran erano scesi in piazza per dimostrare contro il regime dello scià Reza Pahlevi.  All’indomani della rivoluzione è emigrato in Italia e poi in Svizzera dove per oltre quindici anni ha lavorato per OSAR ( l’organizzazione Svizzera di aiuto ai rifugiati), 

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