Roba da Talebani? No, sono gli assassini europei non soltanto italiani

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I talebani d'Afghanistan si sono ripresi le loro donne, anzi a guardar bene gliele abbiamo restituite. Così, d’emblée. E non poteva essere altrimenti, poiché dopo vent'anni di invasione nulla o quasi si sa ancora oggi della cultura di questo paese. Sopravvive tuttavia il ricordo, delle promesse non mantenute dagli invasori, a cominciare dalla “liberazione” della donna. L’obbligo dello chador o peggio ancora del burka, rimane tra i segnali più evidenti di un fallimento.

Italebani talebani sono conosciuti come guerriglieri afghani, punta avanzata del fondamentalismo islamico. Indossano il kurta un ampio camiciotto lungo oltre le ginocchia. Fatalmente, come accade con i preti, sotto la veste si nasconde meglio la sorpresa, quella dei talebani è la poesia. Un bene, un male, o una raffinatezza culturale? Eppure. chi l’avrebbe mai detto? Infatti il media mainstream continua ad insistere sul ritorno a Kabul dei “barbari”, dei “selvaggi tagliagola” dei “barbuti oscurantisti, spietati e crudeli” dei “ tradizionalisti misogini e stupratori”, degli “oppressori del corpo della donna e dei suoi diritti “, insomma a demonizzare il ritorno dei talebani. Non è casuale, anzi. Giova poiché aiuta a dimenticare non soltanto il fallimento di un intervento strategico e militare e le promesse non mantenute, ma anche la condizione della donna in Occidente, per molti versi non di molto dissimile da quella delle afghane, benché non ci sia l’obbligo del burka.

Basti pensare ai femminicidi, che da noi sono diventati una costante. I numeri indicano che quest’anno da gennaio al 5 di ottobre sono “51 le assassinate in ambito familiare o affettivo”, come riporta femminicidioitalia.info, che li elenca: 5 a gennaio, 8 a febbraio, 2 a marzo, 4 a aprile, 8 a maggio, 5 a giugno, 3 a luglio, 6 a agosto, 9 a settembre, 1 a ottobre che però non si è ancora concluso. In pratica, un femminicidio ogni 5,38 giorni nel corso del 2021, ma ogni 3,33 in settembre.

Il fatto è che in Italia più che altrove, il tutto si muove come d’abitudine in una cornice buonista, focalizzata sul senso di protezione del “sesso debole”, invece di tenere al centro del dibattito l’autodeterminazione della donna, il miglioramento delle sue condizioni economiche, la necessità di liberarla e liberarci dagli stereotipi di genere, che vogliono le donne totalmente indifese ogni qualvolta manca loro l’uomo che, la protegge, la guida. A ben vedere, è uno scenario molto simile a quello dell’Islam «integralista», benché esso venga rigettato in ogni occasione e con grande sdegno dal «libero Occidente».

Tuttavia, sebbene alcuni paesi si stiano già avvicinando a una nuova cultura sessuale post-patriarcale (basta guardare l’Islanda, dove oltre due terzi dei bambini nascono fuori dal matrimonio, e dove nelle istituzioni pubbliche le donne sono più degli uomini), nella stragrande maggioranza dei paesi europei ancora si sta discutendo su cosa si guadagna e cosa si perde con questo sconvolgimento del modo di corteggiare le donne che abbiamo ereditato.

Non è un’impresa facile. Una conferma dell’integralismo in atto in Italia giunge dai tribunali, dove chiari episodi di violenza sono spesso trattati come “conflitti”, offuscandone così la gravità e la responsabilità di chi li ha compiuti. Perché gli uomini autori delle violenze sono spesso considerati in modo più favorevole rispetto alle donne vittime della violenza; le quali - è un esempio - hanno meno probabilità di ottenere l’affido esclusivo dei figli. Va pure ricordato che i servizi sociali e legali spesso non tengono in alcun conto le indicazioni della Child Convention on the Rights of children del 1990 a difesa degli interessi delle bambine e dei bambini.

La psicologa Mariachiara Feresin, del Laboratorio di Psicologia sociale dell’Università di Trieste ha spiegato che, «spesso i professionisti di area psico-sociale e giuridica falliscono nell’individuare la presenza della violenza da parte del partner soprattutto durante il processo di separazione, arrivando a decisioni potenzialmente pericolose per le donne e per i figli.». Pertanto, «La situazione peggiora nei casi di affido post-separazione, poiché le procedure giudiziarie e burocratiche non affrontano la complessità di questi casi – condannando gli autori delle violenze e supportando le vittime – dal momento che la violenza domestica non è né valutata né presa in considerazione.». Eppure - è risaputo – che nella maggioranza dei casi è questo il movente che porta al femminicidio.

Sull’argomento c’è pure uno studio del Segretario generale dell’Onu sulla violenza contro l’infanzia, il quale sottolinea che, la violenza domestica paterna raddoppia il rischio di violenza sui bambini. Lo si riscontra anche nella realtà italiana, dove ben due terzi dei mariti violenti lo sono anche nei confronti dei figli. Naturalmente, c’è ogni volta disponibile il media mainstream che rincuora ripetendo che non è marchiato dal “soccombere” il destino femminile. Ma si glissa sempre sulla domanda d’obbligo: come le donne e gli uomini possono raggiungere una parità di condizione economica, sociale e culturale, senza mettere in discussione il sistema capitalistico che genera e alimenta queste differenze, scatenando violenze che sfociano sovente nell’assassinio, calcando la mano nei paesi politicamente ed economicamente fragili, l’Italia è tra questi.

Il problema è che sessualità, potere e violenza sono molto più intimamente intrecciati di quanto possiamo aspettarci. Morale, il femminicidio in Italia dal 20,89 per cento di tutti i delitti che rappresentava nel 2018 è salito al 21,45 nel 2019, al 23,50 nel 2020, al 25,53 tra primo gennaio e 22 agosto 2020, 25,84 tra primo gennaio e 22 agosto 2021 (dati Istat).

Naturalmente, secondo l’Ocse, «l’uguaglianza di genere non è unicamente un diritto umano fondamentale, ma è anche la pietra angolare di una economia prospera e moderna, che punta a una crescita sostenibile e inclusiva, in cui uomini e donne possono dare il loro pieno contributo a casa, sul lavoro e nella vita pubblica. A beneficio dell’economia e della società nel suo complesso.».

Facile da dire, difficile da realizzare. Essere donna in Italia significa partecipare meno alla vita economica e quando vi partecipa, ne trae meno vantaggio economico. I due aspetti sono collegati: salari esigui e minori possibilità di crescita nella carriera non incentivano le donne a restare nel mercato del lavoro.

Sicché una donna che non è in grado di formarsi e di assicurarsi un lavoro dignitoso, una pensione sicura sarà una donna oppressa, una donna dipendente, debole. E dunque, non è difficile immaginare quali ripercussioni sociali, psicologiche e nell’interazione di coppia si possono scatenare in un contesto culturale come quello italiano, nel quale è ancora l’uomo ad essere considerato colui il quale ha il compito portare i soldi a casa, il resto non conta. Non a caso il 90 per cento delle violenze che le donne subiscono avvengono per mano dei partner o degli ex partner.

Con il lockdown si è giunti al limite dell'immaginabile nel primo semestre 2020: gli assassini di donne sono stati pari al 45 per cento del totale degli omicidi, dice l'Istat, contro il 35 per cento dei primi sei mesi del 2019, e hanno raggiunto il 50 per cento durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile 2020. Le donne sono state uccise principalmente in ambito affettivo/familiare (90 per cento nel primo semestre 2020) e da parte di partner o ex partner (61 per cento).

Insomma le donne muoiono prevalentemente in famiglia. E’ un fenomeno ormai strutturale quello della violenza maschile contro le donne che può concludersi con il femminicidio ovvero con, «l'uccisione di una donna da parte di un partner intimo oppure la morte di una donna come risultato di una pratica violenta nei suoi confronti», come recita l'European Institute for Gender Equality.

Tuttavia, in Europa non siamo classificati tra i peggiori in fatto di femminicidi. Gli ultimi dati ufficiali di Eurostat, aggiornati a due anni fa, rivelano che nel 2019 in Europa sono state uccise mille e 421 donne, una media di quattro al giorno, una ogni sei ore: 285 in Francia, 276 in Germania, 126 in Spagna e 111 nel nostro Paese. Ma la prospettiva cambia se si prende in considerazione che le vittime donne rappresentino più della metà delle vittime totali a Malta (80%, tre su cinque), a Cipro (il 66,6%), in Lettonia (62,7%), in Norvegia (57,1%), in Svizzera (56,5%) e in Austria (51,9%). A seguire, Ungheria (48,4%), Germania (44,3%), Croazia (42,4%), Danimarca (40,9%), Bulgaria (40,0%), Olanda (38,5%), Spagna (37,8%), Italia (35,3%), Finlandia (34,0%), Francia (33,1%), Serbia (32,2%), Polonia (31,6%) e Romania (29,0%).

Dworzak Thomas. talebani   CopiaUna delle immagini colorate e lascive trovate nel 2008 dal fotografo Magnum Thomas Dworzak a Kandahar proiettata sulla  facciata della Corcoran Gallery of Art di Washington. FotoWeek DC. 17th St & New York Ave NW, Washington, DC. 

Non ho conoscenze tra i talebani, poiché ogni volta che sono sceso a Kabul ero sempre sul fronte opposto. Pensarli  poeti suona strano per dei guerriglieri, rigoristi fino all’estremo. Eppure, ecco il canto di un combattente. «È tardo pomeriggio, il vento si fa forte e poi rallenta; gli aghi di pino si muovono emettendo un rumore lieve. Quando accelera, il vento muove i rami e i raggi del sole compaiono e scompaiono/come la fiamma di una candela». Sono versi del 2008 di Amanullah Nasratun, talebano, islamista co Kalashnikov . La sua poesia e più di duecento altre sono state raccolte in volume “Poetry of the Taliban” pubblicato nel 2012, a cura di Alex Strick Van Linschoten e Felix Kuehn, ricercatori e giornalisti. La pubblicazione suscitò scalpore.

La poesia ricopre un ruolo cruciale in Afghanistan. È una tradizione orale forte, un verso famoso può essere usato durante una discussione a tavola e può riguardare donne e uomini, la guerra: «Il mio Nabi fu ucciso da un drone. Possa Dio distruggere i tuoi figli, America, tu che hai ucciso i miei figli.». 

In un Paese nel quale l’85 per cento della popolazione è analfabeta è naturale che la tradizione orale sia forte e che la gran parte della cultura e della storia nazionale venga tramandate in versi. Si affacciano tra le rime donne, desideri, passioni, ritratti di lascivia e invocazioni a Dio: «Poni fine alla crudeltà, così che nemmeno una formica muoia per mano di un uomo.»; ma anche: «Luna luminosa, per l’amor di Dio non accecare due amanti con tanta nuda luce.». Ad ispirare il poeta c’è sovente un corpo di donna sulla quale riversare l’amore o la vendetta più atroce a seconda dei casi, ma sempre nel ridondare dei versi.

Che è poi nulla o quasi nulla a confronto di quel marito norvegese che alzò a tutto volume la straziante sinfonia numero quattro di Aleksandr Nikolaevič Skrjabin, mentre spezzettava la consorte con l'accetta, come narrarono le cronache della Norsk ( quattro canali televisivi, tredici radiofonici) di qualche anno fa.

 

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Vincenzo Maddaloni
Vincenzo Maddaloni ha fondato e presiede il Centro Studi Berlin89, l'associazione nata nel 2018, che si propone di ripercorrere analizzandoli i grandi fatti del mondo prima e dopo la caduta del Muro di Berlino. Professionista dal 1961 (per un decennio e passa il più giovane giornalista italiano), come inviato speciale è stato testimone in molti luoghi che hanno fatto la storia del XX secolo. E’ stato corrispondente a Varsavia negli anni di Lech Wałęsa (leader di Solidarność) ed a Mosca durante l'èra di Michail Gorbačëv. Ha diretto il settimanale Il Borghese allontanandolo radicalmente dalle storiche posizioni di destra. Infatti, poco dopo è stato rimosso dalla direzione dello storico settimanale fondato da Leo Longanesi. È stato con Giulietto Chiesa tra i membri fondatori del World Political Forum presieduto da Michail Gorbačëv. È il direttore responsabile di Berlin89, rivista del Centro Studi Berlin89.
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